Una intima convinzione: momenti angosciosi ed empiti di giustizia

L’esordio in cabina di regìa dell’ambizioso Antoine Raimbault con il legal thriller Una intima convinzione offre alcuni spunti di riflessione.

In primo luogo sul dibattuto concetto di autorialità. L’aura contemplativa ad appannaggio dell’opera di poesia, che trascende gli schemi convenzionali della narrazione sul grande schermo per conferire alla scrittura per immagini l’appeal sia del mistero sia dell’apprezzato tocco personale, rientra perfettamente nei punti di forza della pellicola d’inchiesta. Mentre l’incipit riesce ad appaiare stilemi di solito ritenuti incompatibili – ovvero la capacità di presa immediata garantita dall’ossatura ritmica congiunta alla convenzionale colonna sonora e la sottigliezza della reazione mimica dell’imputato nei lunghi istanti dell’incertezza – il prosieguo dà maggior spazio alle notazioni inconfessate ed ergo ai semitoni.

L’egemonia degli interni sugli esterni, col quadro ambientale appena abbozzato, riflette quindi quella sugli accenti trascinanti degli apologhi tribunalizi cari al cinema a stelle e strisce. Da Vincitori e vinti a Codice d’onore. La parentela anche coi classici, tratti dai best seller di John Grisham, appare piuttosto flebile. È chiaro che Raimbault, quantunque inesperto, sappia bene all’inizio dove andare a parare senza cadere nell’impasse dei nani sulle spalle dei giganti. L’effigie dell’insistente Nora, nella quale l’apprendista autore rispecchia il proprio bisogno di spingere gli spettatori a porsi degli interrogativi profondi in merito all’innocenza dell’incupito Jacques, accusato dell’omicidio della consorte, non si ferma certo in superficie. Bensì piega a componente introspettiva il jogging nel parco insieme al figlioletto dell’eroina per caso. A ben guardare, però, anziché lo stato ansioso, gli occhi indiscreti, lo spiraglio di luce aperto nella tenebrosità dell’uxoricidio ancora da accertare, emerge il valore espressivo di alcuni elementi tecnici. Tipo la correzione di fuoco, da un soggetto all’altro, che certifica l’inopinata competenza in materia giuridica di Nora. Decisa, benché più avvezza ai fornelli, a portare a galla la negletta giustizia. L’indubbia perseveranza, priva della carica trascinante di Erin Brockovich – Forte come la verità, con Julia Roberts nei panni dell’indomita attivista che seppe mettere alle corde le compagnie finanziarie inclini ad anteporre il vil denaro alla salute pubblica, non diviene mai perciò ragione di spettacolo.

Il che non costituisce un difetto. Ma impone la marcia in più dell’audacia stilistica al posto del mix di simpatia ed empatia dell’intrigo e della denuncia in forma d’incisiva commedia brillante. L’intraprendenza in tal senso lascia invece piuttosto perplessi. La cuoca, persuasa dell’incolpevolezza dell’uomo alla sbarra, nel dimostrare subito una lodevole dimestichezza nelle varie fasi dell’indagine comportamentistica e dei procedimenti probatori, stenta ad appaiare i timbri manieristici della musica d’accompagnamento. Lo sguardo accigliato, perplesso, sebbene risoluto, accredita, viceversa, il ricorso all’erudito lavoro di sottrazione. Adattissimo a sorreggere i fluidi movimenti di macchina che sopperiscono alla penuria del dinamismo dell’azione con l’ampia gamma di motivi psicologici al servizio degli spaccati sociali. Nei quali i giornalisti chiamati a divulgare al pubblico l’evolversi degli eventi e l’inversione di tendenza, caldeggiata step by step, ricoprono un ruolo di spicco. Le incursioni nel territorio del privato cedono il passo a lungo andare ad alcune soluzioni troppo roboanti. Perlomeno rispetto alla misura precedente con la quale il centro nevralgico della vicenda era unito al rigore dei dettagli. Il timore di pagare dazio a un’esasperante apatia, e con essa alla noia di piombo che ne consegue, spinge Raimbault ad abbassare l’asticella della ricercatezza.

Il crescendo, con la resa dei conti sempre più vicina, evidenzia l’involuzione dell’impianto della trama dovuta alla velleità di garantire l’idoneo respiro alla messa in scena. Senza l’armonia compositiva delle sagaci parabole metaforiche e il carattere straniante di quelle surreali prende piede un’analisi assai risaputa dei risvolti congiunti al thrill. O, per meglio dire, al brivido. Qualcuno lo trasmette in campo e in controcampo l’intenso scambio di sguardi tra giudice e incriminato. I risaputi dialoghi esacerbano, al contrario, l’arretramento sul versante qualitativo causato dall’azzardo d’infilarsi nel tunnel dell’ovvietà. Nonostante i pezzi di bravura garantiti dalla sottorecitazione della talentuosa Marina Foïs alias Nora, brava in Papa ou maman ad andare oltre il plagio travestito da omaggio nei riguardi dell’antesignano yankee Kramer contro Kramer, l’attrice non riesce a tenere sulle spalle il peso dell’esito dell’intero climax conclusivo. Gremito d’inquadrature ravvicinate. Col fiato sospeso congiunto ai responsi delle nuove tecnologie, sull’esempio del più erudito Olivier Assayas in Personal shopper. Invertite le urgenze, legate dapprincipio all’antispettacolarità e in seguito al desiderio di risultare intellegibile, a chiudere il cerchio, al pari degli abbracci finali di rito, è l’imperdonabile misunderstand che scompagina alla carlona la marcia in avanti e indietro in Una intima convinzione.

 

 

Massimiliano Serriello