Con Daunbailò e Coffe and cigarettes torna al cinema in versione restaurata l’intesa artistica tra Jim Jarmusch e Roberto Benigni

La scelta della casa di distribuzione indipendente Movies Inspired di riportare in sala i capolavori del visionario regista statunitense Jim Jarmusch in versione restaurata continua ad assumere i contorni dell’alternativa alle uscite di nuovi film.

Messe a rischio dal timore di bruciare titoli appetibili, sul versante delle cauzioni di commerciabilità, a causa dei protocolli a tutela del distanziamento sociale che stanno rendendo proibitivo il riavvicinamento al mercato primario di sbocco della Settima arte. A partire dal 6 Agosto 2020 gli spettatori avvezzi ad anteporre l’autorialità esibita dietro la macchina da presa con audaci tenute stilistiche ai coefficienti spettacolari degli action movie (ri)troveranno però pane per i loro denti. Soprattutto in virtù dell’originale interazione tra le soluzioni espressive escogitate in cabina di regìa e la maestria recitativa frammista ad avventure picaresche ed empiti esilaranti colmi di toccante umanità. In merito a Daunbailò, che passa dagli stilemi risaputi del prison movie ai desueti tratti distintivi dell’apologo sensibile ed eccentrico, il compianto critico fiorentino Giovanni Grazzini ebbe modo di scrivere: “E se a Roberto Benigni riuscisse quanto a nessun altro nostro comico è riuscito, tanto meno a Totò: di innestare un ramo italiano sul tronco del cinema americano?”. L’Oscar come miglior attore protagonista poi vinto da Benigni con La vita è bella ha avverato l’intrinseca profezia mutuata in forma d’interrogativo. Certo è che l’ingresso in scena del turista proveniente dal Bel Paese, rinchiuso nel carcere di New Orleans per restituire i torti a dei teppisti muniti di palle da biliardo, fa compiere a Daunbailò un risoluto ed empatico giro di boa. In precedenza lo scandaglio ambientale, sulla scorta degli stravaganti carrelli laterali da destra verso sinistra, al pari sia della manierata fotografia in bianco e nero sia dei drammi da camera, sembrava soprattutto uno specchio per le allodole. Ad aggiungere qualcosa che esuli davvero dall’ordinario in un contesto noir dominato dalle solite anime perse provvede Roberto Benigni nel contestualizzare spassosamente il turpiloquio del velleitario lestofante incarnato dal cantautore Tom Waits. Una volta in galera, a causa delle mere ambizioni tralignate in balordaggini, insieme al vanesio protettore di prostitute che fiancheggia pose boriose prima di arrivare alle mani in preda alla penuria d’idonea tolleranza, l’ospite italiano contribuisce definitivamente a sopperire all’inane omogeneità di tono. La sua gioia di vivere, in un mondo definito “bello e triste”, l’irresistibile propensione alla burattinata, che sconfigge lo spettro dell’atroce malinconia, i rimandi ai versi dello scrittore Walt Whitman consentono a Jarmush di mettere da parte l’amata tecnica ed echeggiare gli scoppi d’umorismo dei Maestri della risata.

Col Principe Antonio de Curtis alias Totò, pressoché sconosciuto al pubblico yankee, sugli scudi. Quando viene a galla l’assonanza in inglese del verbo “gridare” e della parola “gelato”, dando luogo al tormentone (“I scream, you scream, we all scream for ice cream”) che piega lo scoglio della sfiducia, la farfalla esce dal bozzolo. Il prosieguo, con l’evasione dei tre amici/nemici per caso e l’apparizione della compatriota decisa ad accogliere Roberto al fine di sottrarlo ai riflussi d’indefessa veemenza dei compagni d’avventura, indulge al patetico. Ma il momento folgorante dello scioglilingua tramutato in esaltante cantilena, sull’esempio di Alberto Sordi nell’episodio Dentone della commedia autoctona I complessi, resta nella memoria d’ogni cinefilo. La struttura della commedia a episodi, pensata per allargare il progetto concepito dapprincipio in veste di cortometraggio per l’indimenticabile programma televisivo di varietà Saturday Night Live, permette a Jarmusch di realizzare, quasi vent’anni dopo Daunbailò, la curiosa ed estroversa parabola Coffee and cigarettes. Benigni, fresco vincitore del premio più ambito per qualsivoglia interprete, dispensa subito a piene mani il carattere d’ingegno creativo.  L’incomunicabilità, fonte d’ispirazione per Michelangelo Antonioni d’accigliati ed eruditi ritratti esistenziali, scombina l’amaro ordine esistente senza colpo ferire. Anzi. Il diritto alla fantasia prende piede all’insegna della sana spensieratezza. L’inquadratura dall’alto delle tazze di caffè, unite nel tenero cin cin che manda in soffitta qualunque misunderstand, rappresenta un’ulteriore freccia all’arco dell’indomito Jarmusch. Tom Waits, l’attore feticcio per antonomasia che non paga mai dazio all’incedere impietoso del tempo, nell’episodio Somewhere in California con Igy Popp impreziosisce il ricorso all’ormai scontata dinamica in campo/controcampo. La reazione mimica dell’uno, la facondia dialogica dell’altro, un medico fiero di aver svolto al meglio la propria professione, i discorsi, ancorché risaputi, sulla dipendenza dal fumo delle sigarette consentono alla trama di crescere di spessore. A perdersi nel silenzio sono invece alcune ministorie incapaci di eleggere il tono minimalista ad avvolgente elemento portante. Il bastone del comando è affidato altrove alla sottile mutevolezza di prospettive con Cate Blanchett che, pur dominando i primi piani con l’irrinunciabile classe, passa in cavalleria dinanzi alla simpatia del duttile polistrumentista Jack White intento ad associare l’ovvio tema ricorrente delle sigarette e dei caffè al tavolo del bar di turno ai bla-bla sulle scariche di energia elettrica. Il dinamismo dell’azione non è tuttavia sfiorato manco di sbieco. L’aura contemplativa, a sostegno della valenza dei timbri poetici congiunti alla vena dissacratoria dell’ironia, che alimenta il teatro dell’assurdo rinvenibile nei tran tran quotidiani, non necessita, con tutto ciò, di trovate roboanti. Basta il piacere di veder connesso l’amore per la musica, che costituisce il mestiere cardine della maggior parte del cast, con l’estro incline ad accrescere, ora più che mai, nel buio della sala, gli spazi dell’inventiva. A pensarci bene non è affatto poco: smussa le punte di spina della tensione emotiva.

 

Massimiliano Serriello