Tenet: la fanta-spy story di Christopher Nolan

Il tenersi in bilico tra lo scaltro carattere di presa immediata del cinema d’intrattenimento e la forza significante dell’ardua aura contemplativa, che contraddistingue i film d’autore, costituisce un mero cerchiobottismo o è l’assoluta marcia in più della polivalenza del regista inglese Christopher Nolan?

L’uscita del suo Tenet, accompagnata dal clamore conforme al lancio dei colossi per dare nuova linfa al mercato primario del settore, compromesso dalle norme sul distanziamento sociale dovuto alla lotta contro il Covid-19, fornisce implicite risposte degne di nota. La contaminazione dei generi, con l’ampio margine d’enigma delle spy story frammisto alle penombre psicologiche degli spiriti in subbuglio, come si addice a ogni noir colmo d’appeal, trae partito altresì dall’ineluttabilità degli apologhi western sull’istinto di conservazione connesso ai timbri mitopoietici del territorio eletto a location.

La padronanza dei coefficienti spettacolari, graditi al pubblico dai gusti semplici, permea l’incipit intento ad attingere l’esplicito dinamismo adrenalinico agli acclamati action movie di Michael Mann e Kathryn Bigelow. L’assalto, armi in pugno, al Teatro dell’Opera di Kiev, cadenzato dal solito turbinio degli spari e dall’ennesimo tentativo di rendere lo spettatore quasi un partecipante, sull’esempio di Strange Days, mette le carte in tavola. Il prosieguo cerca, invece, di corrispondere alle platee maggiormente scaltrite, giacché avvezze ad anteporre allo show pirotecnico garantito dagli effetti speciali l’estro degli slanci immaginifici alieni ai vani segni d’ammicco. La presunta virtù incantatoria, che di norma riesce ad amalgamare stilemi in apparenza inconciliabili, cerca di conferire in questo caso alle inesauste peripezie dell’ingegnoso agente segreto impersonato da John David Washington un alone di mistero. Rintracciabile nella natura irrazionale ed ergo sorprendente della poesia. L’accumulazione dei colpi di scena, però, estranea, sia in spirito sia in prassi all’inventiva dei Maestri visionari, risulta una risorsa gradita solo ed esclusivamente ai seguaci di sci-fi tipo Armageddon – Giudizio finale di Michael Bay. L’assenza del provvido valore terapeutico dell’umorismo, e persino delle semplici ma propizie gag di alleggerimento, che avrebbero permesso al pubblico refrattario alle opere di pensiero una debita tregua, tradisce, nondimeno, la velleità di rileggere in modo assai pretenzioso il lapalissiano modello mainstream. Nolan, tornando a costeggiare il labirinto d’ipotesi che tiene chiunque sui carboni ardenti, vagheggia un’effigie febbrile ed enigmatica.

Memore dell’ancestrale sentimento d’insicurezza unito ai meandri dei sogni, scandagliati in Inception al pari dell’illusione dell’avventura, l’ambizioso Chrisopher si serve dell’insistita correzione di fuoco per consentire alla suspense di toccare la vetta dell’iperbole. L’attitudine ad adottare la rivoluzione della consecutio temporum, che permise al sommo ed energico Sergio Leone d’impreziosire le false piste e le tracce rivelatrici di C’era una volta in America, torna di nuovo a galla. La tambureggiante ossatura ritmica della colonna sonora, tuttavia, appare poco congeniale allo slancio empatico che alterna l’atrocità della violenza e la chimera dell’amore assoluto. Quello materno che l’atipica donna del boss prova per il proprio figlio cede spazio al bisogno di complicare le cose semplici. Anziché spiegare in maniera lineare le faccende inutilmente intricate. Lo 007 di turno, deciso a salvare l’intero creato dal disastro completo, affronta con la medesima nonchalance di Gabrielle Bryne in Crocevia della morte dei fratelli Coen le classiche fatiche di Ercole. Senza, a ogni buon conto, replicarne, pure per un attimo, l’arguta vena ironica. Le arcinote lotte, corpo a corpo, dovrebbero acquisire un rilievo inedito, rispetto al leitmotiv dell’eroe tenebroso che le busca e le dà, con l’inserimento dell’entropia (derivante dal greco ἐν en – “dentro” – e τροπή tropé – “trasformazione”) nell’ambito degli inseguimenti in teoria mozzafiato. Dispiegati all’indietro, a velocità convulsa, col conto alla rovescia ripetuto all’infinito. La direzione invertita del tempo, con i buoni e i cattivi in giro per la terra (dall’Ucraina alla costiera amalfitana, dall’India alla Perfida Albione) prende molto sul serio l’esempio sagace della saga di Ritorno al futuro di Robert Zemeckis e finisce quindi per annoiare.

“Non ti curare di loro, ma guarda e passa” precisa Virgilio a Dante nella Divina Commedia. Ed è ciò che segue alla lettera il protagonista. Affiancato dal collega Neil, che la sa lunga. La congerie di sguardi minacciosi, gesti crudeli, capitomboli fortunati, sfide accettate con sprezzo del pericolo, quantunque forte dell’appoggio dei richiami latini e delle citazioni letterarie, con il tormentone di Walt Whitman (“Viviamo in un mondo crepuscolare”) associato ad aforismi fatalisti piuttosto spiccioli (“È andata com’è andata”), precipita, a furia d’insistere, nell’impasse del ridicolo involontario. La penuria d’un punto di vista articolato, necessario ad assumere uno spessore epico attraverso la valenza poliedrica dei compositi motivi ricorrenti (dal fattore del rischio perenne all’estrema durezza di ciascun habitat, che offre comunque in filigrana fulgide chance di salvezza; dal terrore-attrazione per l’ignoto all’intrigo dell’avvenire in lotta col presente), traligna i messaggi in codice in sterili colpi di gomito. La tenue morale della favola, subordinata ad archetipi roboanti ed elusive soluzioni stilistiche, dedite sottobanco al copia e incolla, manda a monte l’assurda pretesa di fornire con Tenet un’esperienza percettiva fuori dall’ordinario. L’onesto contributo del cast non basta certo ad alzare il tiro. Anzi: Kenneth Branagh, dimentico dell’arte shakespeariana maturata a teatro, nel ruolo del trafficante d’armi, che intende giocare un brutto scherzo al pianeta, diviene prigioniero degli strambi vezzi gigioneschi dei guitti. Sulla stessa stregua del montaggio alternato che, complice la madornale smania di convertire il mero sensazionalismo dei superficiali campi lunghi e degli ovvi primi piani in sensazioni profonde ed empatiche, fa molto rumore per nulla. Shakespeare docet.

 

 

Massimiliano Serriello