Le sorelle Macaluso: l’opera seconda di Emma Dante

A sette anni di distanza dal film d’esordio Via Castellana Bandiera, in grado di conciliare gli stilemi dei cosiddetti women’s picture con i caposaldi del genere western e dell’apologo antropologico, Emma Dante conferma con Le sorelle Macaluso di saper unire suggestioni diverse fra loro.

L’adattamento per il grande schermo dell’omonima piecè teatrale, realizzata sempre dall’eclettica regista palermitana, segue dapprincipio la falsariga del cinema da camera. Per conferire all’ennesima storia al femminile la capacità di spingere gli spettatori a spremersi un po’ le meningi. Anziché tirare fuori il fazzoletto. Le dinamiche interiori dispiegate dapprincipio per trascendere i soliti stratagemmi delle opere strappalacrime, incapaci di approfondire il “lutto dal cielo” di bergmaniana memoria, riescono, invece, a costeggiare l’ingegno dei dotti numi tutelari. La grintosa Emma, ben lungi da trarre linfa solo ed esclusivamente dalle idee prese in prestito, ci mette, comunque, del suo.

L’aria ora di complicità, ora di sfida, che riesce a sopperire all’eccessivo poeticismo legato all’effigie dei piccioni intenti a svolazzare dentro casa, richiama alla mente lo scandaglio introspettivo esibito in Via Castellana Bandiera. Gli interni familiari, con le inquadrature fisse dell’abitazione, destinata a divenire l’humus d’infinite pretese, intente ad allargare gli spazi dell’immaginazione, cedendo il passo agli esterni panteisti innescano un emblematico cambio di rotta. A dispetto della velleità di contemperare la crudezza oggettiva di stampo neorealista, concernente il degrado metropolitano, e gli interludi fiabeschi, rinvenibili nell’ordine naturale delle cose scoperte nel tragitto verso l’agognata spiaggia, l’intenso disegno psicologico dei compositi caratteri coglie nel segno. L’immagine in pianosequenza del trascinante ballo in riva al mare strappa, oltre al sorriso, persino l’applauso. La forza vitalistica congiunta altresì alle parole della celebre canzone Meravigliosa creatura di Gianna Nannini travalica quindi l’enfasi di maniera connessa all’ampollosa scelta di sostituire l’usuale voce narrante con i testi dei brani musicali.

L’accostamento dei tòpoi del romanzo d’appendice con i rimandi citazionistici cari alla cultura postmoderna crea situazioni, al contrario, piuttosto programmatiche ed ergo prevedibili. Mentre la fugace avventura sentimentale legata all’arena estiva di Mondello, contraddistinta dalla strizzatina d’occhio rinvenibile nel racconto dell’originale trama del cult movie degli anni Ottanta Ritorno al futuro, sembra attingere a Nuovo cinema Paradiso, senza equipararne i timbri nostalgici ed empatici, il thrill, o brivido che dir si voglia, tiene il pubblico col fiato in gola. L’atroce dipartita in acqua della sorellina più piccola, Antonella, nel tentativo d’imbucarsi nell’altolocato stabilimento Charleston per mezzo di un’instabile scaletta, resta avvolta nell’incertezza. Prima di svelare l’arcano, grazie all’ottimo montaggio alternato, Emma Dante congeda la virtù del territorio eletto a location di condizionare i modi d’agire ed esamina l’impietoso scorrere del tempo. L’acredine di Pinuccia, interpretata da adulta dalla carnale Donatella Finocchiaro, già in odore di David di Donatello, grazie anche alla bravura dimostrata passando dall’accento catanese a quello palermitano, impreziosisce la perizia della messa in scena.

L’alcova, nell’ormai sconsolata casa con l’incolta piccionaia in attesa di levare le tende, palesa de facto il connubio dell’acume scenografico e dell’avvolgente psicotecnica recitativa. Quando i nodi vengono al pettine, in mezzo a feroci recriminazioni, tristi rivelazioni, inevitabili rassegnazioni, l’insito rimando ad alcuni classici imperniati sulle dispute dialettiche, tipo Chi ha paura di Virginia Woolf? di Mike Nichols, si tinge d’una malinconia assai peculiare. Ed è lì che Emma Dante, a dispetto dell’abuso degli stravolgimenti espressionisti, come il frastuono causato dal rintocco dell’orologio e qualche inchino di troppo nei riguardi degli archetipi del simbolismo, dà il meglio di sé. Lo struggente leitmotiv della colonna sonora, sostituito nell’epilogo dall’hit Inverno di Franco Battiato, finirebbe per inasprire l’insicurezza affettiva, battendo sempre sullo stesso tasto, se i garbati semitoni non fungessero da arguto contraltare. L’inquadratura ravvicinata delle labbra che bisbigliano memorabili versi letterari, appartenenti a Oriana Fallaci e Fëdor Dostoevskij, l’atrio vertiginoso della palazzina periferica, i piccioni allevati per le cerimonie nuziali, i preparativi dell’ultimo servizio funebre, l’appartamento vuoto, il cicaleggio degli operai scandiscono le note intimiste. Il flashback conclusivo, nel ricordo della complicità di Pinuccia, Maria, Lia e Katia tralignata in irreversibile sfiducia, fa vibrare la corda della poesia in Le sorelle Macaluso. Ed elude l’inane freddezza dell’intelligenza ritrovando il calore umano riposto nei precari ma memorabili tocchi giocosi dell’allegra gioventù.

 

 

Massimiliano Serriello