Padrenostro: Pierfrancesco Favino e il terrorismo degli anni di piombo

L’ambizioso regista romano Claudio Noce, a sette anni di distanza da La foresta di ghiaccio, dove cercò d’impreziosire il gusto compiaciuto ed erudito del puzzle cerebrale con l’empatia panteistica dei luoghi scelti come teatro a cielo aperto degli oscuri eventi, abbandona in Padrenostro i timbri noir.

L’attitudine a mettere tanta carne al fuoco resta però la stessa. Al pari dell’audace polivalenza espressiva che tiene gli spettatori sulla corda, in base ai precetti dei thriller canonici, mettendo a frutto tuttavia stilemi in apparenza incompatibili.

L’idea di toccare il cuore con la rievocazione degli anni di piombo per trarre partito dalla fragranza evocativa ed emozionante dei ricordi personali, in merito al tentativo criminoso subìto dal papà vicequestore, Antonio Noce, per mano dei terroristi del gruppo Nuclei Armati Proletari, dando poi la precedenza al raziocinio, ed ergo al cervello, suscita curiosità. Giacché, se non altro, esula dall’ordinario. Da qui, però, a definire straordinario il lavoro di sottrazione adottato da Noce, per creare un solido rapporto di coalescenza tra spettatori e personaggi, ce ne passa. L’incipit, col salto indietro nel 1976, dopo il cortocircuito poetico in metropolitana ai giorni nostri, all’insegna della ricerca del tempo perduto caro a Marcel Proust, incrocia gli sguardi, sulla falsariga dei Giovani Turchi della Nouvelle Vauge, ed esamina, per mezzo dell’immancabile camera a spalla, la profonda solitudine del piccolo protagonista in seno alla famiglia. La partita a Subbuteo, il bisogno di un fiabesco compagno di giochi, l’assiduo ricorso ai primissimi piani, i programmatici raccordi di montaggio, l’effigie della Città Eterna in lontananza, dalla terrazza di casa, con il Cupolone in bella mostra, compongono un quadro piuttosto prevedibile. Al frustrato desiderio di comunicare da parte dell’introverso Valerio Graci, alterego dell’autore capitolino, si va ad appaiare il dinamismo dell’azione nel momento dell’attentato.

Mentre lo slow motion replica la consuetudine di accrescere il trauma dell’evento, senza coglierne i significativi motivi d’insicurezza legati alla suspense, lo sguardo in macchina del fanciullo sconvolto rimane impresso nella memoria. L’agonia patita dal terrorista ucciso dal bodyguard del giudice, scampato per miracolo all’agguato, appartiene invece al repertorio degli effetti di second’ordine dei mélo d’impegno civile. Antitetici ad apologhi sull’età verde tipo I quattrocento colpi di François Truffaut e Boyhood di Richard Linklater. La voluttà di aggiungere all’invisibile, togliendo al visibile sull’esempio dell’avvertito Bruno Dumont, in grado di rileggere i tòpoi degli horror con l’urto pindarico dell’asciutta ed emblematica analisi introspettiva, non fa mai vibrare le ermetiche corde sotterranee. Che stabiliscono l’assoluta supremazia dello spirito sulla materia. L’astrazione metafisica, delineata alla carlona, cede così il passo all’ingresso in scena dell’agognato babbo. La sequenza in cui Valerio scopre l’incanto della telecamera e scorge nelle quiete strizzatine d’occhio paterne le tracce segrete del dolore rimosso dona allo scontato disegno psicologico la virtù di arricchire di dolci visioni l’amarissima crudezza oggettiva. L’incontro con il quattordicenne Christian alza il tiro.

L’arguto margine d’enigma sull’identità del ragazzo, che dapprincipio sembra il classico amico irreale e in seguito trova una sua stabile collocazione all’interno della trama in chiave collettiva con il viaggio in Calabria dai nonni per reperire nei vincoli di sangue e di suolo un fulgido antidoto all’intrinseco cupio dissolvi, innesca un’escalation di cornici intense ed emblematiche. Scandite, oltre che dall’andirivieni dei moti d’affetto e d’invidia, pure dal leitmotiv delle canzoni d’epoca. L’inidonea modalità esplicativa delle molteplici e reiterate parole in musica, in antitesi con le note intimiste introdotte cum grano salis dall’interpretazione alla Actors Studio del sobrio ma incisivo Pier Francesco Favino, retrocede i toni elegiaci nella compassionevole retorica. L’amor vitae scaturito dal cascinale domestico, dal mare, dagli scogli, dal tormentone di un tuffo funesto, che dovrebbe garantire alla segretezza dell’arcano di stare in piedi fino all’ultimo, palesa l’assenza del sentimento misurato. Conforme alla legittima egemonia delle tensioni sotterranee sulla vanagloria dei momenti folgoranti. L’iperbole del sentimentalismo alla resa dei conti svilisce la radiografia esistenziale garantita dagli eloquenti silenzi. L’uggioso frastuono della magniloquenza, estranea all’intesa taciturna che lega il mondo adulto e la gioventù, prende il sopravvento. Ed evidenzia, con il ritorno al presente nell’epilogo d’origine chapliana di Padrenostro, la velleità di connettere brividi sinistri e tenerezza catartica.

 

 

Massimiliano Serriello