Us, at the end of the year: una nuova “storia di noi due” filippina

Ad accrescere l’incanto romantico di Us, at the end of the year – disponibile sulla piattaforma TBAPlay – rispetto al prequel Ang Kwento Nating Dalawa (La storia di noi due) provvede il colpo d’ala fornito dall’idonea mutevolezza espressiva.

L’abile regista filippino Nestor Abrogena, alieno all’oltranzismo stilistico sfoggiato dall’applaudito conterraneo Lav Diaz in The woman who left attraverso la forza significante degli assidui pianisequenza, riuscendo invece ad anteporre l’emozione al rigore e il sagace dinamismo dei movimenti di macchina al leitmotiv delle inquadrature fisse, anziché perdersi in tanti rivoli fini a se stessi, coglie nel segno.

L’arguto seguito dell’intensa ma incostante storia d’amore tra Sam e Isa, conclusa a causa di un viaggio negli Stati Uniti scandito dall’algida scoperta dell’alterità, che non guarda in faccia ai sentimenti coltivati nel suolo patrio, non si limita a riprendere il filo interrotto. Bensì approfondisce proprio il concetto di “altro” ed ergo di “diverso” destinato ad acquisire, step by step, i semitoni della carezzevole familiarità. Il risvolto malinconico, nascosto dietro i brindisi dei convivi domestici e gli slanci dell’intesa di coppia con i nuovi partner, emerge tramite l’uso virtuosistico dello slow-motion. La soluzione tecnica, intenta ad afferrare l’essenza celata dall’apparenza, non paga dazio all’enfasi di maniera grazie alla fragranza del contenuto umano che penetra nel cuore. I cinefili ostili ai meri espedienti delle opere strappalacrime a corto di fosforo trovano pane per i loro denti nelle pregnanti alterazioni cromatiche, garantite dalla capacità di scrivere con la luce dell’erudita fotografia, dagli squarci visivi, analoghi a quelli dell’illustre collega americano Michael Mann, dalle tensioni sotterranee connesse all’originale esame sia degli stati d’animo sia dei dati antropologici ed etnologici.

Mentre la prima parte attinge senz’estro agli impianti corali dei capolavori di Robert Altman ed Ettore Scola, abbinando lo scandaglio introspettivo delle condotte insite nel tran tran quotidiano con una virtù d’osservazione sminuita dai timbri eccessivamente programmatici, l’inopinato ricorso alla panoramica circolare alza il tiro. Indagando negli sguardi facondi dei due ex amanti in occasione dello spettacolo coreografico organizzato per Natale ad Ayala Triangle Gardens. Il senso estetizzante schiavo degli infruttiferi colpi di gomito, rinvenibili dapprincipio in alcuni sfondi paesaggistici dispiegati in superficie, acquista allora lo spessore del riverbero interiore. L’alienazione metropolitana, fronteggiata ancora una volta da Sam ascoltando sull’ipod il brano Never me insieme all’affabile promessa sposa Anna, l’effigie dei centri commerciali di Manila, gli ovvi rifugi panteisti, eletti ad antidoti assai sbrigativi contro l’egemonia del bel vivere sul buon vivere, l’immancabile mix d’interni ed esterni, dove Isa subisce l’abbaglio dell’equilibrio perfetto con l’immusonito Frank, risultano assai meno efficaci della farfalla che esce dal bozzolo, e quindi dall’impasse dell’ingegno preso in prestito, quando lo zampino furbetto di Cupido prende il sopravvento.

Scongiurata l’autorete del tenerume, profuso a tutta birra dalla colonna sonora con l’impiego di canzoni cosmopolite avvezze alle modalità esplicative dei versi melliflui, il rinfrancato linguaggio delle immagini conferisce al palpito mai davvero sopito dell’antica passione un acume particolare. Il crescendo recitativo di Nicco Manalo (Sam) ed Emmanuelle Vera (Isa) avviene secondo copione. Con l’urto dei voluti scompensi, garantiti dall’intelligente montaggio, con le prevedibili varianti umoristiche, frammiste alle frizioni che rendono al contrario la nota intima persino spiazzante, coi momenti di solitudine ed estraniazione, con l’impasto di lacrime e sorrisi, conformi ai modelli dei maestri occidentali, con i chiaroscuri al contrario tipicamente orientali legati in chiave evocativa agli inquieti profili. In procinto di aprire il varco all’ottimismo dell’happy end. Alex Medina e Anna Luna nel ruolo dei vicari sentimentali, decisi comunque a preservare la dignità, vanno viceversa oltre il prestabilito schematismo dei rapporti di causa ed effetto. Restituendo all’incrociarsi degli sguardi, carichi di palpiti fugaci e d’interrogativi cruciali, l’autenticità dell’aura contemplativa. Us, at the end of the year sprigiona così l’anelito silenzioso dell’esistenza, costeggia la palese allegoria dell’ennesima giungla cittadina, confida nella persuasione della musica e scongiura ulteriori lagne. Ed è, in ultima analisi, un pasticcio niente male. Degno di un’attenta visione. O forse più d’una.

 

 

Massimiliano Serriello