La sponda oltre l’inferno: Il nuovo romanzo di Younis Tawfik

“Il mare è un mostro. È malvagio. Un polpo con tentacoli senza fine. Un’affascinante bestia mitologica con la pelle liscia e morbida come seta. Ti avvolge dolcemente, ma ti divora quando è arrabbiata. È un essere senza pietà.”

Quante vite si perderanno ancora nel Mediterraneo? E cosa sarà dei migranti giunti sulla sponda oltre l’inferno? In questo nuovo avvincente romanzo Younis Tawfik, iracheno di nascita e tra i maggiori esperti di Medio Oriente in Italia, pone al lettore queste e tante altre domande. E lo fa attraverso cinque destini, cinque vite di superstiti di un naufragio al largo della Libia che si incontrano seduti in cerchio sotto la luna di Lampedusa. I protagonisti, quattro uomini e una donna provenienti da diversi paesi dell’Africa, si sono conosciuti in un centro di detenzione alle porte di Tripoli, ultima tappa dei micidiali viaggi della salvezza. Insieme hanno rischiato di morire per mano di crudeli carcerieri, sotto i colpi della fame, il dilagare delle malattie e, infine, fra le onde del Mediterraneo. Un racconto polifonico, umanissimo e straziante, dove la reciproca testimonianza diventa catarsi e restituisce a uomini e donne feriti la loro dimensione di esseri umani.

A bordo di ogni singolo gommone, barcone oppure pescarecci che partono dalle sponde africane per dirigersi verso le coste italiane non ci sono solo le singole vite di chi attraversa il mare. Ma un insieme di storie personali più vaste, che si intrecciano con storie ancora più grandi, che toccano pezzi di umanità e paesi, in cui si vivono realtà che troppo poco spesso trovano spazio nei giornali.

In una notte di luna, seduti gli uni accanto agli altri, in quell’isola approdo che è Lampedusa, tre uomini e una donna, partiti insieme e sopravvissuti al naufragio, possono raccontarsele quelle storie e quei paesi da cui arrivano. Nell’ultima notte che li trova assieme prima che vengano trasferiti nei centri di accoglienza cui sono destinati.

Non è un libro facile da leggere questo di Younis Tawfik. Trasuda di violenze e crudeltà, narrate da protagonisti reali, che lui ha incontrato durante il percorso lavorativo di due tra di loro. E chi legge sa che poco tra quelle righe è narrativa e romanzo. Il più è vita vera, che ci passa accanto senza avere la possibilità di essere ascoltata. Ma letta sì, se si arriva nella sponda oltre l’inferno che viene narrato.

L’inferno libico, il cui prezzo è diverso, se sei donna, come Fnan. «Bella come la speranza», che vuole solo vivere, avere un’altra possibilità. Che non chiede altro, dopo essere scappata da quel paese abitato di soldati, l’Eritrea, in cui l’obbligo militare riguarda indistintamente uomini e donne. Uno stato in cui l’adolescenza non esiste e la colonna sonora è una marcia militare che inizia da minorenni ma non si sa quando finisce.

Per Fnan, l’orizzonte Italia non è meta ma punto di partenza. Ha vissuto di tutto e da tutto si è fatta attraversare. La violenza subìta non le appartiene, è qualcosa che determina chi gliel’ha fatta, non lei. Lei sente il dovere di andare, costruire, in nome di chi quella possibilità non l’ha avuta, non l’avrà mai. È lei che salva la madre di Hassan, altro sopravvissuto alla traversata, partito dal Darfur (nel Sudan) con la mamma, altra vittima di stupro.

Madre, che subisce violenza davanti a chi ha messo al mondo e a cui rimane la forza solo di accarezzare il viso di quel figlio. Madre che sapeva di raccontare una bugia ogni volta che lo ha rassicurato che sarebbe andato tutto bene in quel viaggio dove, in realtà, non puoi determinare nessuna alternativa. In cui l’unica certezza è che sei in balìa dell’incognita della morte.

Un tempo, questo delle loro storie, senza tempo, eternamente sospeso, sia quando è attesa e prigionia sia quando è mare e onde. Quelle onde da cui il siriano Marwan salva Hamid, prendendolo per i capelli. Lui che era partito da Tripoli con tutta la famiglia e tutta l’ha persa nel mar Mediterraneo; che a quel mare avrebbe voluto abbandonarsi, perché il pensiero è rimasto là sotto, come la sua anima che non si dà pace. Ma sono sopravvissuti e hanno il dovere di vivere.

In questa sponda al di là dell’inferno c’è la stessa acqua, lo stesso scoglio dove adesso mi trovo a piangere il mio destino, la stessa pena che mi assale e mi lacera l’anima. In questa opposta riva è lo stesso sole che acceca e scalda, ma non nasconde le sofferenze di chi ha perso tutto, pure l’anima.

Lampedusa, la terra della salvezza e della speranza, ma non è sempre la porta del paradiso.

L’isola dove si aggrappano i sopravvissuti per ritrovare la vita sfuggendo alla morte. Il sogno infranto sotto i colpi delle onde e l’ammasso di corpi martoriati sopra le rocce. La meta per i miserabili, i mansueti, che fuggono da loro stessi per riconciliarsi con il mondo.

Essa è l’oasi che unisce un povero gruppo di persone, quale ora noi siamo, che per sentirsi ancora vive raccontano sottovoce la loro fuga, la sofferenza e i sogni lacerati dal vento e infranti tra le onde.

Enrico Cocciulillo