Stasera in tv Un mercoledì da leoni di John Milius

Stasera in tv su Rai 4 alle 23,20 Un mercoledì da leoni (Big Wednesday), un film del 1978 diretto da John Milius e dedicato al mondo del surf. Il regista presenta una sorta di avventura autobiografica, in ricordo dei propri anni giovanili passati a Malibù, California, accompagnata dalle musiche di Basil Poledouris. Con Gary Busey, Jan-Michael Vincent, William Katt, Patti D’Arbanville.

Trama
Nell’estate del ’62 Jack, Matt e Leroy sono giovani, spensierati e assolutamente pazzi per il surf. La loro vita trascorre prevalentemente sulla spiaggia in attesa della “grande onda” grazie a cui dimostrare il proprio valore. Poi arriva il Vietnam. Jack passa tre anni nell’inferno della guerra. Gli altri due riescono a evitare il fronte. Nella primavera del 1974, in occasione di una violenta mareggiata, i tre si ritrovano di nuovo sulla spiaggia. La vita li ha cambiati e la loro amicizia è ormai esaurita. Ma tutti ancora innamorati delle tavole da surf aspettano, forse per l’ultima volta, la grande onda che è in arrivo.

“John Milius arriva a Big Wednesday dopo una brillante carriera da sceneggiatore (sua è la prima stesura di Apocalypse Now, capolavoro di Francis Ford Coppola) e un esordio alla regia nel 1973, con Dillinger, che lo segnala come uno degli autori più talentuosi della New Hollywood. Il successo anche economico gli permette di dedicarsi a un progetto personale in cui sono evidenti forti elementi autobiografici: Milius ha infatti partecipato in prima persona all’epopea del surf, facendo parte, negli anni Sessanta, della ristretta cerchia dei surfisti californiani. Il film si costruisce intorno a una delle mitologie di questo sport, quella del Grande Mercoledì, giorno in cui ogni generazione di surfisti incontrerà una mareggiata così grande da spazzare via tutto quanto è successo prima. Ed è questo il tema centrale del film: la contraddizione tra la Storia, il trascorrere del tempo e degli anni, il doversi piegare alle costrizioni sociali e biologiche e la volontà di riaffermare attraverso un atto palingenetico la propria individualità senza tempo, fissata in una continua giovinezza che è coestensiva al tempo del surf. Rimanere sulla cresta dell’onda non è allora solo un virtuosismo surfistico, diventa invece la metafora figurativa del tentativo di sottrarsi al tempo, di riuscire a cavalcarlo come un’enorme onda, prolungando all’infinito un attimo felice di perfetto controllo, di padronanza di sé, in cui la giovinezza non ha ancora subito le imposizioni della vita. Questa tematica dà luogo nel film a una narrazione fortemente strutturata attraverso esplicite opposizioni: l’acqua, il vento e la spiaggia, luoghi privilegiati del surf e spesso connotati di un vitalismo euforico, opposti ai luoghi di terra, la casa, il cimitero, il locale messicano, il Vietnam (mai mostrato direttamente), segnati dallo scorrere della vita sociale e spesso dalla morte. E anche la temporalità del surf si oppone a quella della vita sociale, la prima perfettamente circolare, scandita dall’eterno ritorno delle stagioni, delle mareggiate, del succedersi delle generazioni che affrontano il destino del surfer, la seconda inesorabilmente lineare, destinata a cancellare la giovinezza, le amicizie, le grandi imprese di un tempo”.
(Guglielmo Pescatore, Cultura Bologna)

“Dodici anni di vita e di storia americana sono racchiusi in quattro capitoli corrispondenti ad altrettanti grandi mareggiate (1962, 1965, 1968, 1974): a ogni onda, calare la tavola in mare è il modo migliore per dimenticare un attimo che la vita vera è lì, a presentarti il conto. Il terzo film di John Milius, forse il suo migliore in assoluto, è il più classico e profondamente americano dei coming of age, dolente chiusura di un poker perfetto formato con L’ultimo spettacolo di Peter Bogdanovich (1971), American Graffiti di George Lucas e Mean Streets di Martin Scorsese (entrambi del 1973). In parte autobiografico, è un’ode nostalgica all’età dell’innocenza ed esempio perfetto di cult cinematografico (e non solo perché venerato dalla comunità dei surfer): le sequenze tra i cavalloni tolgono ancora il fiato, ma il vero punto di forza è la vena di disillusione e amarezza che percorre tutta la pellicola, e resta nel cuore. Gli rende omaggio Point Break (1991) di Kathryn Bigelow, che vede tra i protagonisti lo stesso Gary Busey. Come nel film, anche nella realtà William Katt è figlio di Barbara Hale, mentre l’attrice e modella Patti D’Arbanville ispirò la canzone di Cat Stevens Lady d’Arbanville”.
(LongTake)

 

 

Luca Biscontini