Stasera in tv La proprietà non è più un furto di Elio Petri, con Flavio Bucci e Ugo Tognazzi

Stasera in tv su Rai Storia alle 21,10 La proprietà non è più un furto, un film del 1973 diretto da Elio Petri con Flavio Bucci e Ugo Tognazzi. L’opera, comunemente, si considera far parte della cosiddetta “trilogia della nevrosi“, un trio di film composto da Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (“nevrosi del potere“) e La classe operaia va in paradiso (“nevrosi del lavoro“), che si completa con un’analisi della “nevrosi del denaro“. Inserito in concorso al Festival di Berlino e presentato alle Giornate del cinema di Venezia del 1973, il film non ottenne riconoscimenti. Seppur sequestrato in Italia per oscenità e offesa al pudore, fece infine registrare un buon successo di pubblico, grazie alla trovata del distributore Goffredo Lombardo che lo distribuì come film del genere commedia all’italiana, vista anche la presenza di Tognazzi nel cast. Sceneggiato dalla coppia fissa Elio Petri-Ugo Pirro, con la fotografia di Luigi Kuveiller, il montaggio di Ruggero Mastroianni e le musiche del maestro Ennio Morricone, La proprietà non è più un furto venne aspramente criticato dalla sinistra dell’epoca e massacrato proprio dai colleghi del regista, sebbene, in realtà, si trattasse di un film profetico in grado di delineare, seppur in maniera approssimativa, le dinamiche socio-economiche di un’Italia proiettata nei rampanti anni ’80. Con Ugo Tognazzi, Flavio Bucci, Daria Nicolodi, Salvo Randone, Luigi Proietti, Mario Scaccia.

Trama
Total, giovane impiegato di banca, è allergico al denaro, gli fa schifo toccarlo e disprezza chi lo possiede. Convinto che il mondo sia fatto di ladri, quelli che si professano tali e quelli che si arrichiscono alle spalle degli altri, crede di aver individuato un appartenente alla seconda categoria in un macellaio cliente della banca per cui lavora. Decide di prenderlo di mira.

“Nell’ultimo periodo della mia vita, ho fatto film sgradevoli in una società che ormai chiede la gradevolezza a tutto, persino all’impegno: se l’impegno è gradevole e quindi non dà fastidio a nessuno, lo si accetta. Altrimenti, no. I miei film, al contrario, oltrepassano addirittura il segno della sgradevolezza”.
(Elio Petri)

“All’apice del suo estro creativo, Elio Petri realizza un’altra opera fondamentale all’interno del panorama cinematografico italiano, dopo il successo internazionale ottenuto con Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) e La classe operaia va in paradiso (1971). Meno rigorosa e complessa delle due precedenti, ma non per questo meno efficace, la pellicola analizza la contaminazione (intellettuale e fisica) che subisce l’uomo a causa della dipendenza dal denaro imposta dalle dinamiche capitaliste. E così il gesto di bruciare o buttare nel gabinetto una banconota assume i tratti di un oltraggioso rito pagano. Apologo allucinato segnato da invidia, egoismo e odio, esasperati dal legno storto di un tessuto sociale che non concede possibilità di cambiamento ai più deboli. Un grottesco incubo a occhi aperti e un mostruoso teatro dell’assurdo che raggiunge autentico realismo attraverso il fantastico sociale. La gestualità ferina dei personaggi si riflette anche nella volgarità della parola e la brama di possesso svela la natura meschina, la depravazione sessuale e le ossessioni dell’uomo, in un contesto storico-politico nebuloso ma perfettamente sovrapponibile a quello dell’epoca. L’ideologia di fondo si fa schematica nel confronto tra i due protagonisti, ma l’elogio funebre del ladro e il potente epilogo simbolico rimangono nella memoria. Regia inventiva, straordinaria direzione degli attori, magistrale sceneggiatura di Petri e Ugo Pirro, garbate musiche di Ennio Morricone e scenografie di Gianni Polidori che guardano alle installazioni di arte contemporanea (notevole la mostra dei congegni di sicurezza). Il dipinto dei titoli di testa è di Renzo Vespignani. Presentato in concorso al Festival di Berlino”.
(LongTake)

La proprietà non è più un furto beve dalle due fontane che dissetarono il secondo tempo della carriera del regista romano: all’influenza di Franz Kafka, onnipresente dalla stupenda opera prima L’assassino, aggiunge il potere catartico del “teatro della crudeltà” di Antonin Artaud e l’alito di Bertolt Brecht, sfociando in un’estremizzazione espressionista del linguaggio cinematografico. A scandire gli sviluppi della storia sono proprio delle finestre nere, palcoscenici brechtiani dai quali gli attori sfondano la quarta parete, recitando dei monologhi lucidi, scarnati, destabilizzanti (superbo quello del brigadiere Pirelli / Orazio Orlando). Nella dialettica tra essere e avere, il denaro si erge trionfante come il Deus ex machina del credo capitalista. “Non sei ladro, non sei onesto, ma chi sei?”. Total è l’incarnazione del disagio e del malessere in una società nella quale non troverà mai pace. “Io vorrei essere e avere, ma so che è impossibile. È questa la malattia”. I suoi intenti per ridurre in miseria il macellaio si rivelano una dissidenza controllata che finisce per perfezionare un sistema sociale, politico ed economico nel quale tutti hanno bisogno di tutti. “Nessuno è mai finito in miseria pe’ i furti, scemo”, gli sputa in faccia Albertone, “che vuoi? Lassa perde’: se vuoi ruba’, ruba pe’ diventa’ ricco, come tutti”. Non c’è verso: anche quando ci sono delle piccole manchevolezze, Petri è sempre epico, visionario, disturbante. Il migliore (no, non è un luogo comune) dei registi politici, che non per caso venne sradicato dall’immaginario collettivo del cinema italiano per più di vent’anni. La sua opera, e La proprietà non è più un furto ne è esempio lampante, mostra una rara consapevolezza nel modo di intendere il mestiere, in cui la professionalità si identifica con l’etica: uno sguardo ribelle contro le regole ipocrite e gli equilibri imposti con la forza, dalla parte del popolo “in tutti i sensi, quindi anche dal punto di vista politico, soprattutto dal punto di vista umano”.
(Belli, sporchi e cattivi)

 

 

Luca Biscontini