A classic horror story: il villaggio dei dannati di Strippoli e De Feo

È chiaramente a quello della serie televisiva American horror story che strizza l’occhio il titolo di A classic horror story, concepito per Netflix dall’esordiente Paolo Strippoli insieme a Roberto De Feo, che nel 2019 aveva debuttato tramite The nest (Il nido).

Ma, mentre quell’opera prima si svolgeva quasi totalmente all’interno di un’antica e lugubre villa, qui sono soprattutto esterni d’ambientazione rurale a fare da scenografie alla disavventura di cinque sconosciuti in viaggio in camper e improvvisamente costretti a scendere dal mezzo per avventurarsi nel fitto bosco.

E, se l’apertura sulle note della sempreverde Il cielo in una stanza di Gino Paoli promette decisamente bene, il resto, pur con i suoi pregi, non sembra essere all’altezza.

Perché, man mano che il quintetto – costituito dal montalbaniano Peppino Mazzotta, la Matilda Lutz di Revenge, il Francesco Russo de Il regno, la Yuliia Sobol de Il ragazzo invisibile – Seconda generazione e uno Will Merrick che tanto ricorda Mark Zuckerberg – s’imbatte in una casa in legno nel mezzo di una radura, i cliché tipici del genere si sprecano.

Del resto, se già la situazione di partenza rimanda inevitabilmente al super classico Non aprite quella porta di Tobe Hooper, oltretutto omaggiato anche in determinate inquadrature, l’entrata in scena di una setta dedita a barbare pratiche guarda in maniera chiara a Midsommar – Il villaggio dei dannati di Ari Aster (o al suo antenato The wicker man di Robin Hardy?).

Scelte di sicuro volute, considerando la propensione da parte della oltre ora e mezza di visione a prendere in giro in più di un’occasione proprio tutto l’horror da schermo, fino a rivelarsi opera metacinematografica. Non si può fare a meno di constatare, però, che a fornire questa tipologia di prodotto mirato a giocare con le regole dell’horror provvide ben venticinque anni prima già Wes Craven attraverso l’eccellente Scream.

Un modello di cui, con ogni probabilità, Strippoli e De Feo hanno tenuto conto, come testimoniano sia il retrogusto ironico sempre presente che la sorpresa finale, comunque infarcita di interessante metafora sociale degna degli anni Settanta in celluloide ma efficacemente adattata all’Italia del terzo millennio.

Metafora che non risparmia neppure l’evidente frecciata al morboso voyeurismo pericolosamente diffusosi nell’era della comunicazione web, senza riuscire, però, ad elevare oltre la linea del compitino ben fatto A classic horror story, costruito in maniera piuttosto banale sul consueto crescendo di mistero scandito da lenti ritmi di narrazione e da occasionali esplosioni di violenza (mai comunque graficamente troppo esplicita).

Se poi non si può fare a meno di elogiare la fotografia trasudante rosso a cura di Emanuele Pasquet e il generale curato look dal sapore internazionale, è impossibile ignorare la recitazione fortemente sussurrata che rende incomprensibili non pochi dialoghi. Ma questa, ormai, è una piaga che attanaglia quasi tutto il cinema dello stivale del globo.

 

 

Francesco Lomuscio