A passo d’uomo: il lungo viaggio di Dujardin

Dopo tre film d’ordinaria amministrazione, incapaci di eleggere la scioltezza del racconto ad antidoto contro il tasso d’ovvietá che troneggia in superficie, l’ambizioso regista transalpino Denis Imbert cerca con l’intenso ed elegiaco A passo d’uomo di mandare in sollucchero i seguaci del cinema d’autore. Che alla distensiva leggerezza delle commedie brillanti e alla concitazione degli action-movie privilegiano l’aura ascetica degli apologhi introspettivi. In grado di andare in profondità senza mai ricorrere ai coefficenti spettacolari cari al pubblico dai gusti semplici.

Si tratta quindi d’una propizia inversione di tendenza o dell’impasse di chi vuole darsi arie fuori luogo? La geografia emozionale nella vicenda dell’esploratore-scrittore Pierre, reduce da un’infausta caduta ma deciso ad attraversare la Francia a piedi, resta sullo sfondo.

Nessuno dei sentieri battuti palmo a palmo dall’intellettuale col pallino dell’avventura riverbera appieno l’interazione tra habitat ed esseri umani. Ad appannaggio dei capolavori di Wim Wenders. Il mix, invece, di suoni diegetici, conformi all’ordine naturale delle cose, ed extradiegetici, inclini ad accrescere il processo d’identificazione nella trama, coglie nel segno. Al pari dell’uso della metonimia di Eisensteiniana memoria in certe inquadrature aliene alla spettacolarizzazione gradita alle masse. Tuttavia nemmeno la cosiddetta “parte per il tutto”, con l’effigie dei piedi sugli scudi per sintetizzare il corpo del pioniere moderno in cerca di riscatto contratto nello sforzo, basta ad acquisire preziosi quarti di nobiltà dietro la macchina da presa.

Il mix tra passato e presente risulta piuttosto risaputo. Senza palesare perciò i lampi d’estro necessari a far confluire nella scrittura per immagini rintocchi malinconici ed empiti vitali. L’intento di scomparire nel panorama, anziché restare alla storia, è affidato più alle modalità esplicative dei soliloqui che agli eloquenti silenzi connessi al rapimento del paesaggio circostante. A dispetto della fulgida marcia recitativa di Jean Dujardin, svelto ad aderire alla cocciutaggine di Pierre sulla scorta d’una destrezza mimica degna d’encomio, il carattere spiccio congiunto all’effigie delle varie location, segnalate step by step nelle alacri didascalie, toglie ogni mistero alla contemplazione del reale.

Priva sia del grande respiro dei classici sia dell’assoluto governo degli spazi delle opere in cui i sentimenti più toccanti ed epidermici emergono dal rapporto col territorio. La tenue scoperta dell’alteritá, relativa alle tappe prefisse e poi pervicacemente raggiunte, cede il posto all’unico, autentico colpo di scena. Che chiarisce la dinamica del rovinoso tonfo. All’origine della palingensi del romanziere beone, vittima della propria improntitudine e del delirio d’onnipotenza che attanaglia gli individui di successo a corto d’umiltá. Il prosieguo, una volta svelato l’arcano, pesca nella mera scontatezza. Col risultato che la formalizzazione del tratto grafico e dei contrasti di luce della fotografia, intenta a conferire ad A passo d’uomo meriti superiori a quelli che merita, palesa l’assenza di contenuti all’altezza delle ambizioni disseminate lungo l’intero iter narrativo.

 

 

Massimiliano Serriello