Dolor y gloria: Almodóvar ci accompagna in un viaggio all’origine del desiderio

“Il cinema della mia infanzia odorava di urina, gelsomino e brezza estiva”: così, molto poeticamente, Pedro Almodóvar ricorda il suo primo impatto con le immagini proiettate sul grande schermo, d’estate, all’aperto; quando apparivano il mare o le onde, tutti i bambini sentivano l’irrefrenabile urgenza di andare dietro al grande telo bianco per espletare i loro bisogni: ecco che la memoria non solo si traduce in immagine, ma coinvolge anche gli altri sensi, ripresentandosi in maniera ancora più profonda, quasi fisica.

Dolor y gloria, involontariamente, costituisce l’ultimo tassello di un’ipotetica trilogia iniziata con La legge del desiderio (1987) e proseguita tramite La mala educación (2004), laddove in ciascuno dei tre film i protagonisti sono altrettanti registi alle prese con il rapporto intercorrente tra il desiderio e la finzione cinematografica.

C’è tantissimo di autobiografico in quest’ultima opera del regista spagnolo, sebbene non manchi una rielaborazione creativa, giacché, si sa, il passato non cessa di essere plasmato, in vista di un presente verso cui è già da sempre indirizzato. Almodóvar effettua un viaggio a ritroso verso l’origine del desiderio, uno sforzo mnemonico che si coagula in una potente, iconica immagine, quando da bambino, per la prima volta, provò una pulsione sessuale verso un corpo maschile. Un desiderio così improvviso e forte che gli causò uno svenimento. Ed è a partire da questa vicenda traumatica che il cineasta, dotato di indubbie capacità fin dall’infanzia, trasse quell’energia creativa dirompente che gli ha consentito di produrre le proprie opere. È proprio l’impossibilità di elaborare fino in fondo l’eccedenza di quell’Evento a indurlo a confrontarcisi ogni volta, mettendo in scena instancabilmente l’acceso universo emotivo che ne è scaturito. Croce e delizia, insomma, uno scarto incolmabile che, proprio in quanto tale, necessita costantemente di trovare una rappresentazione che è insufficiente a prescindere.

Ma in Dolor y gloria è raccontato anche e soprattutto un grande amore del passato, una relazione dolorosa per il protagonista, avvenuta all’inizio degli anni Ottanta, in un momento di grande entusiasmo e libertà per la Spagna, poco dopo la fine del regime franchista. Un rapporto che lo ha segnato profondamente, poiché, anche a fronte del grandissimo sentimento provato, Salvador (Antonio Banderas) non riuscì a impedirne la fine. Il titolo del film connette chiaramente la dimensione del dolore a quella della creatività. Non c’è gloria senza sofferenza, suggerisce senza cincischiare Almodóvar, e quantunque non sia una situazione esistenziale facile da sostenere è l’unica che conosce e che riesce a gestire – non senza difficoltà – dando corpo alla propria imperiosa creatività. Interessanti, nella prima parte del film, sono le animazione digitali inserite per descrivere in modo efficace i malanni fisici, oltre a quelli spirituali, di Salvador: in Dolor y gloria, a scapito della retorica poetica, il dolore fisico riveste un ruolo importantissimo, laddove influisce enormemente sulla possibilità di lavorare del protagonista, il quale, senza poter accedere a un set, si sente inutile e svuotato.

Antonio Banderas, truccato e pettinato in modo tale da essere il più simile possibile a Pedro Almodóvar stesso, fornisce una buona prestazione, così come Asier Etxeandía nei panni di Albero Crespo; ottime anche Penelope Cruz (la mamma di Salvador da bambino) e Julieta Serrano (in quelli della madre ormai anziana).
Sebbene senz’altro ascrivibile al melò, genere tanto amato dal regista, Dolor y gloria è un film che dà corpo a una profonda e coinvolgente elaborazione emotiva del vissuto del protagonista, comportando, quindi, una grande dose di lucidità di contro alla materia emotiva che affronta. Un’opera intensa che tiene desta l’attenzione per tutta la sua durata. Peccato solo – ci permettiamo di osservare – per il finale metacinematografico, di cui si è fin troppo abusato altrove, che, oltre a essere un po’ prevedibile, non aggiunge alcunché all’insieme.

 

 

Luca Biscontini