Freaks out: lo chiamavano cinema italiano

La maniera più semplice in cui si potrebbe frettolosamente sintetizzare Freaks out, opera seconda del Gabriele Mainetti che tanto ha fatto parlare di sé grazie all’ottimo, premiato esordio registico Lo chiamavano Jeeg robot, è “L’incontro tra il tarantiniano Bastardi senza gloria e i mutanti X-Men di casa Marvel”.

Ma, procedendo per ordine, si comincia con un Israel che, dai connotati di Giorgio Tirabassi, presenta il proprio circo, lasciando poi esclusivamente alle immagini il compito di introdurne i quattro fenomeni da baraccone che vi vivono all’interno come fossero fratelli.

Matilde, Cencio, Fulvio e Mario, ovvero la ragazza elettrica, il giovane capace di prendere confidenza con gli insetti (ad eccezione delle api), l’uomo lupo e il nano calamita, rispettivamente interpretati da Aurora Giovinazzo, Pietro Castellitto, un irriconoscibile Claudio Santamaria e Giancarlo Martini.

Un poker di assurdi personaggi che, nel momento in cui Israel scompare misteriosamente, nella Roma del 1943 si ritrovano soli e alle prese con il pericolo dell’occupazione nazista rappresentata in particolar modo dal folle e spietato Franz alias Franz Rogowski, in cerca di individui dai poteri straordinari per il suo Zirkus Berlin.

Una figura a tratti guardante, senza alcun dubbio, a quella proposta da Charlie Chaplin nel super classico Il grande dittatore, destinato a rivelarsi soltanto uno degli importanti modelli su pellicola da cui Freaks out attinge.

Perché, con Steven Spielberg chiaramente rientrante tra i principali cineasti di riferimento, se un evidente rimando a Federico Fellini è riscontrabile nella presenza di una attempata signora prosperosa durante la sequenza del bagno nel latte, è impossibile non pensare ad un palese omaggio a Le avventure del barone di Munchausen di Terry Gilliam quando assistiamo al volo in cielo di Matilde e Cencio sparati tramite cannone.

Il Cencio cui, oltretutto, viene affidata buona parte dell’indispensabile ironia presente nell’operazione, riecheggiante anche L’armata delle tenebre di Sam Raimi nell’assalto attuato grazie alle catapulte.

Tutti cineasti che Mainetti – affiancato per la seconda volta in sceneggiatura da Nicola Guaglianone – dimostra di aver assorbito nella giusta maniera per poter apprendere le fondamentali lezioni di Settima arte che lo hanno portato a confezionare un kolossal probabilmente unico nell’intera storia del cinema italiano.

Un kolossal che, non privo di spettacolari bombardamenti, cruda violenza con tanto di sangue che schizza copioso e bizzarrie assortite (si pensi soltanto all’incubo futuristico di Franz), regge tranquillamente il confronto con l’infinità di blockbuster e costosissimi cinecomic hollywoodiani; rispecchiandone l’aspetto visivo tutt’altro che vicino alla provincialità tipica delle produzioni italiane del terzo millennio, nonostante i suoi protagonisti siano provvisti di accento romano nella parlata.

E, mentre la colonna sonora a firma del regista stesso in coppia con Michele Braga risente dell’influenza di maestri del calibro di Nino Rota, John Williams e Danny Elfman, sono la notevole cura riservata a scenografie, fotografia ed effetti speciali a contribuire alla riuscita di Freaks out.

Con la risultante di oltre due ore e venti di visione mirate a ricordare che la guerra si prende gli uomini migliori e li trasforma nei peggiori e che, caratterizzate da un notevole ritmo narrativo, coinvolgono senza annoiare lo spettatore… anche se Quentin Tarantino ci avrebbe di sicuro risparmiato la santificazione buonista a tutti costi dell’inferocito partigiano incarnato da Max Mazzotta.

 

 

Francesco Lomuscio