Madres paralelas: Almodóvar racconta il dolore individuale e collettivo

Sulla scia del precedente Dolor y gloria (2019), Pedro Almodóvar riduce sensibilmente – se non proprio annulla – l’intensità barocca della messa in scena per concentrarsi sulla narrazione, laddove, sebbene sempre all’interno di un costante registro melodrammatico, allarga la prospettiva d’osservazione, situando i personaggi sul più ampio sfondo di un paese che non ha ancora definitivamente chiuso i conti col passato.

Il prologo e l’epilogo di Madres paralelas formano il cerchio all’interno di cui si contestualizza la spinosa vicenda raccontata: due madri, per un drammatico equivoco, incrociano i propri destini e, ancora una volta, il regista è abilissimo a scandirne le vite interiori. Il femminile rivela tutta la sua vitale Potenza, a confronto della quale il maschile risulta strumentale.

La dialettica tra i generi non trova un reale spazio d’espressione, poiché insiste un’incommensurabilità, una differenza ontologica, che impedisce un vero dialogo. Il maschile è il Potere, la violenza, la morte e quella guerra civile spagnola, le cui ferite non si sono, a distanza di più di ottant’anni, totalmente rimarginate. Le due madri di Madres paralelas, allora, segnalano l’urgenza nel presente di continuare a elaborare un passato che non cessa di tornare sotto forma di rimosso, minando le identità individuali e quella di un’intera nazione. “Madres paralelas parla degli antenati e dei discendenti, della verità sul passato storico e della verità più intima dei personaggi. Parla dell’identità e della passione materna attraverso madri molto diverse tra loro”: il regista rivela chiaramente l’intento di ricostruire le soggettività all’interno del più ampio e costitutivo quadro comunitario.

Non si dà singolarità senza intersoggettività, non c’è dramma personale che non sia già da sempre compreso in un Storia che riguarda tutti. Detto ciò, chi ama il cinema di Almodóvar avrà comunque nuovamente il piacere di trovarsi di fronte a una rappresentazione in cui i sentimenti e le emozioni più profonde la fanno da padrone, toccando le corde più intime dell’animo. Penélope Cruz (Coppa Volpi a Venezia) e la giovane Milena Smit, una vera rivelazione, duettano meravigliosamente, trovandosi a far fronte a una situazione estrema per la quale dovranno attingere a tutte le risorse psicologiche a disposizione. Una fatale circostanza delinea le zone d’ombra di Janis (Cruz) e illumina l’innocenza di Ana (Smit). Il loro intenso rapporto, destinato a ciò che sembrerebbe essere un’inevitabile rottura, riesce però a ricomporsi, proprio perché entrambe compiono il titanico gesto di trascendere le rispettive individualità in direzione di un orizzonte in cui si ritrovano assieme a un intero paese.

La terra di Spagna nasconde ancora le memorie di un dolore collettivo che chiede di non essere dimenticato. L’unico appunto che si può muovere al film, che è senz’altro riuscito nel suo complesso, è di non essere sufficientemente omogeneo nell’articolare passato e presente, poiché appare piuttosto evidente una brusca cesura tra i due piani, che il regista risolve frettolosamente con una giustapposizione che non convince, laddove risulta un po’ forzata e artificiosa, non trovando un sufficiente spazio di sintesi all’interno della narrazione. Di contro, spiccano le eccellenti interpretazioni delle due protagoniste – Penélope Cruz, in  particolare, è di una bravura indiscutibile -, cui si aggiungono le convincenti prestazioni di Aitana Sánchez-Gijón, nel ruolo della madre di Ana (che ricorda un po’ Ingrid Bergman in Sinfonia d’autunno), e la sempreverde Rossy de Palma. Sobria, infine, la fotografia di José Luis Alcaine e adeguate le musiche di Alberto Iglesias, sebbene a rimanere impressi nella mente dello spettatore siano due brani non originali: la meravigliosa Autumn leaves di Cannonbal Adderley e Summertime, nella sublime interpretazione di Janis Joplin.

 

 

Luca Biscontini