Invelle: l’animazione in chiave rievocativa

Rievocare tappe storiche cruciali attraverso i momenti d’intimitá d’una famiglia contadina strappa più applausi o sbadigli?

Il regista Simone Massi prova con l’applaudito film d’animazione in bianco e nero Invelle, reduce dal Festival del Cinema di Roma 2023, ad arginare la rischiosa incognita della noia di piombo, che allontana il pubblico dalle sale, per vincere così anche l’indefesso pregiudizio degli spettatori dal palato fine nei confronti di un settore parallelo degno invece d’encomio.

Nella vicenda che prende piede dalla conclusione della Grande Guerra sino ad arrivare all’epoca del sequestro Moro si evince l’assoluta efficacia dell’arguta profondità di campo. Impreziosita dal tratto grafico a penna in grado di creare un’autentica forza visiva scevra dall’impasse di qualsivoglia déjà vu. In tal modo il tessuto figurativo si erge ad attante espressivo carico di senso. Per far entrare in empatia sia il pubblico dai gusti semplici sia le platee maggiormente avvertite con lo stream of cosciousness dell’immusonita bimba Zelinda, rallegrata solo dalla festa del paese poi attanagliato dall’impietoso conflitto mondiale, dell’alacre Assunta, decisa sulla scorta dei saltelli tipici dell’età verde a uscire dalla coltre di sconcerto morale imperante nel 1943, del risoluto Icaro. Fieramente condizionato dal vernacolo marchigiano e pronto a restituire pan per focaccia ai compagni di scuola della città avversa agli zappaterra. Ritenuti trogloditi.

L’uso di opportuni match-cut sonori ed effetti talora programmaticamente disturbanti scongiura il rischio di pagare dazio all’ormai vetusta elegia sui legami di sangue e di suolo preservati dal mondo bucolico. Gli elementi di crudezza oggettiva, frammisti alla vena immaginifica caldeggiata dai riferimenti fisionomici del disegno e dalle coinvolgenti escursioni di stampo onirico, consentono d’impreziosire quella cultura orale fatta di pudichi sussulti ed empiti inopinati. Connessi all’innocenza perduta, al bisogno di districarsi tra i meandri di un non luogo, “invelle” nel dialetto del posto, alla volontà di trovare comunque dei saldi punti di riferimento. Gli echi provenienti dal macrocosmo in perenne agitazione sociale e politica, il tran tran del microcosmo tramandato a fior di labbra, i pizzichi d’ironia legati al ruolo dell’habitat campestre nell’animo giovanile danno l’acqua della vita ad alcune intense ed empatiche vertigini mentali.

Lo scorrere del tempo, inscritto nel solco della nostalgia per un modus vivendi ormai al crepuscolo, produce un’ondata d’immagini prive di regolarità formale. La qualità pittorica, sorretta dal piacere d’inventare l’atmosfera del sogno partendo dal marcato realismo dell’interazione tra modesti interni domestici ed esterni georgici, è ritmata dalle voci in successione di fior d’interpreti. La realtà colta di sorpresa non viene così mai messa sottosopra ma recuperata attraverso l’indicativo sottosuolo dei gesti e degli affanni dipanati poco a poco. Con il condizionamento familiare che spinge l’introverso Icaro a reagire di fronte all’improntitudine della futura generazione, allergica all’attaccamento alla pur anonima terra. È per questo motivo che Invelle, nonostante qualche vana insistenza sui pertugi alla John Ford, aperti sull’orizzonte catartico e il richiamo del mare lontano, chiude i battenti dando lustro ai valori contenuti in radici identitarie ed epidermiche.

 

Massimiliano Serriello