Jojo Rabbit: una gaia commedia nazista

Autore dai gusti alquanto bizzarri, nonché fornito di un inusuale sense of humour che di questi tempi potrebbe fare anche la differenza, Taika Waititi, regista di nazionalità neozelandese, si è fatto conoscere prima tramite quel piccolo gioiellino della horror comedy che è Vita da vampiro, datato 2014, per poi confermare il proprio successo mettendo mano nel 2017 alla terza avventura del Dio del Tuono di casa Marvel: Thor: Ragnarok.

Distaccandosi da storie fumettistiche e guizzi provenienti dal regno orrorifico, Waititi decide di affrontare in Jojo Rabbit una tipologia di orrore realmente esistita, ovvero il Nazismo, e lo fa mettendo in piedi, ovviamente una sorta di commedia, a tratti surreale che non manca di graffiare.

Tratto da un romanzo di Christine Leusens, Jojo Rabbit racconta la storia di un bambino interpretato dal bravissimo Roman Griffin Davis e che, abitante della Germania nel pieno della Seconda Guerra Mondiale, decide di essere arruolato ad ogni costo nelle milizie naziste, mentre porta avanti un rapporto con un particolare amico immaginario: Adolf Hitler (Waititi stesso).

Amico immaginario cui chiede consigli anche dopo aver scoperto che in casa, dove vive insieme alla madre Rosie (Scarlett Johansson), si nasconde una ragazza ebrea di nome Elsa (Thomasin McKenzie), la quale sconvolge non poco la vita del piccolo Jojo.

E diciamo che la scelta di miscelare ironia e orrori della Seconda Guerra Mondiale non è operazione nuova in campo cinematografico, se, senza scomodare il Charlie Chaplin de Il grande dittatore, pensiamo al Roberto Benigni da Oscar de La vita è bella e al geniale Mel Brooks, che già nella seconda metà degli anni Sessanta accennò all’argomento in Per favore, non toccate le vecchiette (rifatto in versione musical, nel 2005, in The producers – Una gaia commedia neonazista), nel quale un folle autore teatrale cercava di riportare in auge il nazismo attraverso un testo intitolato Primavera di Hitler.

Ma è proprio a questo tipo di assurda ironia che Waititi sembra guardare col suo Jojo Rabbit, tanto che lo spettatore prova quasi l’impressione di trovarsi dinanzi alla versione cinematografica di Primavera di Hitler, con in scena tutta l’irriverenza del caso e il tocco particolare necessario a ridicolizzare determinate mentalità diffusesi negli anni Quaranta.

Un film innanzitutto sulla crescita, che, attraverso l’esuberanza e la gioia infantile del protagonista, inconsapevole sostenitore del male, testimonia quanta innocenza sia stata infranta verso la fine degli anni Trenta, senza dimenticare parentesi atroci e a dir poco commoventi.

Una bravissima Johansson, un Sam Rockwell in versione ufficiale nazista provvisto di latente omosessualità, una Rebel Wilson micidiale kapò e uno Stephen Merchant bizzarro agente della Gestapo arricchiscono il cast di questa originale commedia che, comunque, lascia intuire che Waititi non sia certo Brooks.

Forse si spinge anche oltre con lo humour nero, ma di questi tempi ironizzare sul nazismo non è più così coraggioso e, anzi, finisce per essere un facile pretesto da cui trarre senza difficoltà poesia. Quindi, è sotto questo aspetto che Jojo Rabbit perde qualche punto, pur rimanendo una visione pregna di intelligenza e carica emotiva, capace di compiere il proprio dovere in maniera più che decente.

 

 

Mirko Lomuscio