La terra promessa: un western sui generis per il danese Nikolaj Arcel

Deciso a recuperare l’estro perso strada facendo, dopo il passo falso commesso con l’effimera trasposizione sul grande schermo dell’acclamata saga letteraria La torre nera di Stephen King, l’ambizioso regista danese Nikolaj Arcel abbandona le ingannevoli sirene del cinema made in USA per girare in patria il western sui generis La terra promessa. Nella fulgida speranza di riacquisire l’indubbia compiutezza stilistica ed espressiva esibita oltre dieci anni or sono in Royal Affair.

Un corposo ed erudito affresco storico in grado di appaiare l’alta qualità figurativa allo scandaglio tout court dell’essere e dell’apparire nel XVIII secolo. Alla corte del capriccioso Cristiano VII di Danimarca. Tradito dalla passionale cugina, Carolina Matilda di Hannover, divenuta obtorto collo sua consorte. Innamorata del risoluto medico dell’inviperito sovrano.

L’appeal dell’intrigo narrativo, imperniato allora sull’egemonia degli impulsi libidici rispetto all’egida dei soliti obblighi dinastici, cerca adesso di prendere piede attraverso i palesi rimandi del medesimo secolo alla dibattuta lotta di classe. Nel trarre partito sottobanco dalla serie televisiva Roma, ideata dal sagace John Milius, per approfondire il confronto tra nobili e plebei al di là degli ovvi luoghi comuni, Arcel si schiera apertamente dalla parte del soldato Ludvic Kahlen. Che, tornato dell’ennesima guerra, chiede alla tesoreria reale di poter costruire a proprie spese una colonia nell’indocile brugheria dello Jutland. Con la promessa di ricevere, una volta portato a termine l’arduo proposito, un titolo nobiliare. Al fine di affrancarsi dalla nascita illegittima, da bastardo, come recita il titolo originale del film, a causa della seduzione e dell’abbandono d’un bieco conte donnaiolo. Ai danni dell’incolpevole popolana, desiderosa, comunque, di crescere il figlio della colpa all’insegna dell’indispensabile fierezza. La densità di pertinenti sfumature psicologiche ed evocative riscontrabili in Royal Affair cede così mestamente il passo a un’inane visione manicheista.

La penuria del carattere d’ingegno creativo necessario ad andare ben oltre il tumulto degli scontri, preceduti dalla prevedibile ridda d’istigamenti, tagliati con l’accetta dell’aspirante autore alieno alla sottigliezza dell’aura contemplativa, viene sopperita alla bell’e meglio dal timbro generico e sbrigativo costituito dal richiamo dell’avventura. L’involuta scrittura per immagini, orfana della previa virtù di cogliere nella giusta misura lo spessore tragico degli stati d’animo connessi ai legami di sangue e di suolo per mezzo sia dei paesaggi riflessivi sia degli interni domestici carichi di senso, trascura quindi gli opportuni versanti in ombra. Ed ergo l’antidoto ideale contro l’impasse del mero déjà-vu. Che trabocca in tal modo da ogni lato. Dal rilievo iconografico dell’ormai vetusta porta di casa aperta sul mondo, attinta a Sentieri selvaggi di John Ford, agli echi marxisti dell’apologo bucolico Novecento di Bernardo Bertolucci. L’ordinario mosaico di avvenimenti, esacerbati dall’improntitudine dell’autocrate signorotto locale, Fredric de Schinkel, che avanza diritti sulla proprietà limitrofa, non dirotta mai dai modesti canoni dello spettacolo d’immediata concretezza. Lungi tanto dal riservare autentiche sorprese quanto dal convertire sul serio la banale crudezza oggettiva in pregnanza simbolica.

Sicché il taglio delle inquadrature, l’assemblaggio dei movimenti scenici, l’insito invito a entrare in empatia con gli empiti di ribellione delle figure femminili, delineate sulla scorta del livellamento egualitario, a partire dall’adattamento a quattro mani di Arcel e dello sceneggiatore Anders Thomas Jensen del libro Kaptajnen og Ann Barbara redatto da Ida Jessen, palesano velleitarie pretese metaforiche senza mettere sufficientemente in mostra gli idonei spunti allegorici ed empatici a supporto della franchigia muliebre. La maschera dell’esperto Madds Mikkelsen nel ruolo dell’armigero intento ad anteporre l’onore dell’ardire sincero al dispotismo dei diritti di successione raggiunge il massimo della comunicativa nei frequenti silenzi che preannunciano gli scatti di orgoglio. Più formali che conformi al sostanziale ed erudito lavoro di sottrazione. Arcel, al contrario, privilegia l’esplicitezza dell’opera a tesi ai colpi d’ala della profonda verità interiore. Neppure sfiorata dall’epilogo granguignolesco, addirittura in salsa splatter, che cade sul più bello nel grottesco involontario. Insieme al vieto folclore, ai modi didascalici delle sequenze febbricitanti, all’esplicito pistolotto moralistico sulla coscienza civile, alla superficialità dei volti, ora infangati ora sdegnati, delle amazzoni di turno. Che spingono La terra promessa, nella cornice stantia della steppa contrapposta alla lussuosa residenza dell’antagonista privo di scrupoli e virilità, ad accorpare discutibili momenti epifanici. Destinati a tralignare step by step negli stilemi dei puerili revenge-movie. Del tutto a corto di trovate degne d’encomio.

 

 

Massimiliano Serriello