LE RECENSIONI DI GABRIELE GALLI: “GLI ANNI FELICI”

Gli ANNI FELICI di Daniele Luchetti – 2/11/2013

“Gli zoom a velocità supersonica, ricordano i filmini delle vacanze”. Chissà se Daniele Luchetti, nelle fasi di preparazione e lavorazione della suo ultima pellicola, avrà ripensato alla battuta pronunciata da Giuliano Montaldo nel film del suo grande amico Nanni Moretti, Il Caimano. Perché effettivamente questa battuta potrebbe sintetizzare, senza voler troppo calcarne l’accezione negativa, l’ultima fatica del regista Romano, ultimamente molto regolare nella sua produzione (gli ultimi tre film sono usciti sempre a distanza di tre anni!).

La sensazione che si ha uscendo dalla sala, mai troppo velata e meno che mai nascosta, soprattutto ascoltando la voce narrante incisa dallo stesso Luchetti, è infatti quella di un film-bilancio della propria infanzia e delle ripercussioni sulla vita presente del regista. Che pone un dubbio sul titolo stesso: ma gli Anni Felici di Luchetti sono quelli raccontati nel film, o quello contemporanei in cui può (far) spendere intorno ai 7 milioni di euro per una specie di seduta di auto psicanalisi? E soprattutto, riesce comunque ad interessare ed emozionare il pubblico?

In qualche modo sì, anche se visto lo sforzo produttivo, per cui Cattleya merita senz’altro una menzione particolare, rimane la sensazione che sia un bel film ma che difficilmente si avrà voglia di rivedere; come un petto di pollo molto ben condito, e brillantemente presentato sul piatto: alla fine rimane un petto di pollo.

Tutto ciò che gira intorno alla storia è infatti su livelli di eccellenza: una bellissima fotografia (in pellicola, ovviamente, Super8 compreso); cura e attenzione maniacale e mai banale alla scenografia e ai costumi, e soprattutto un grande cast, che merita un paragrafo a sé: dai piccoli Samuel e Niccolò alle splendide mamme dei protagonisti, Pia Engleberth e Benedetta Buccellato, bravissime entrambe a definire due caratteri diversi di una generazione a disagio con la liberazione dei costumi degli anni ’70; il solito mostro sacro (ormai) Kim Rossi Stuart; ma soprattutto una Micaela Ramazzotti che si consacra come una delle più grandi attrici italiane contemporanee: se è così brava anche senza Virzì dietro la macchina da presa (con cui, tendenzialmente, gli attori sembrano tutti bravi) allora davvero i paragoni con le leggende della nostra tradizionale Commedia all’italiana non sono più blasfemi.

Ciò che delude, stranamente, è il montaggio: quello che in genere è la “ri-scrittura” di un film, in questo caso non riesce a chiudere il cerchio, di una sceneggiatura evidentemente già alla base lacunosa; il film non ha finale, e anche il tentativo della già citata (e usata poco e male) voce fuori campo non fa che aumentare il senso di inconcludenza.

Non è obbligatoria, una morale alla fine di una storia, ma, se non c’è, cercare di inserirla a tutti i costi, non fa che peggiorare la situazione.

In ogni caso se questo fosse semplicemente uno dei 200 film prodotti all’anno da questo paese, andrebbe tutto bene, ma ahimè, di anni felici il nostro cinema non ne sta passando da un po’; e allora stringiamoci attorno a questo buon prodotto, sperando in un successo a qualche festival al di là degli oceani.

Gabriele Galli