Licorice Pizza: l’amore anni Settanta di Alana e Gary

Paul Thomas Anderson – benché venerato dai cinefili avvezzi a eleggere ad Autori con la “A” maiuscola, ed ergo a demiurghi per gli atei, i registi che li fanno sentire intelligenti e superiori al volgo, ritenuto incapace di capire determinate cifre stilistiche connesse alla scrittura per immagini da chi poi predica in altri ambiti il livellamento ugualitario – sembrava aver preso la strada del tramonto. A differenza del prestigioso collega Gus Van Sant. Che va a corrente alternata. Come dimostrano i deludenti mélo Scoprendo Forrester e La foresta dei sogni, gli originali apologhi sulla trilogia della morte Gerry, Last Days ed Elephant sino ad arrivare all’interessante ma prevedibile biopic Don’t worry con Joaquin Phoenix nel ruolo del vignettista satirico John Callahan schiavo dei vizi e delle circostanze.

Paul Thomas Anderson passato viceversa dalla forza significante di opere dense di suggestioni profonde ed echi beffardi come Boogie Nights, Magnolia e Ubriaco d’amore al clima inutilmente ossessivo ed evocativo onnipresente ne Il petroliere e Il filo nascosto non punta semplicemente a riacquisire il carattere d’ingegno creativo. Ma pure, se non soprattutto, il carattere misterioso della poesia per mezzo degli stilemi della farsa intelligente. Da non confondere con i tratti distintivi della comicità demenziale frammista ai tòpoi di quella morale.

Licorice Pizza, l’ultima fatica di Paul Thomas Anderson, non c’entra nulla con Animal House di John Landis, per fare un esempio, né con American pie diretto da Paul Weitz e Chris Weitz. Il romanticismo, inteso come l’idealizzazione sentimentale di un sogno, di una condotta morale, di un affetto che gli illuministi sottopongono al cinico termometro della ragione, interessa ad Anderson. La commedia romantica per niente. Per vincere l’Oscar sfuggitogli sempre sul filo di lana punta ad accorpare la farsa intelligente con l’idealizzazione sentimentale. Ovviamente un film manifesto del miraggio da tradurre in realtà a dispetto del disincanto dei seguaci del pensiero illuminista tipo Tucker – Un uomo e il suo sogno di Francis Ford Coppola c’entra poco con una farsa intelligente come Don’t look up di Adam McKay. La catastrofe che lì attanaglia il professore avvezzo a calcolare le traiettorie della sfera celeste, nonché deciso a scongiurare l’immane rotta di collisione, circola nell’aria anche in Licorice Pizza. Ma in modo ben diverso. Non è il massimo del microcosmo, ovvero l’intero pianeta, a dover affrontare un impatto fuori da qualsivoglia portata. Bensì due antieroi di un microcosmo. Una coppia che non fa testo. Che sfugge alle convenzioni. Due disadattati che intendono lasciare il segno. Lui, Randy, ha la goccia al naso, è imbelle, non sa imporsi fisicamente di fronte alle smargiassate degli spacconi di turno; però ha un sogno, inaccessibile ai suoi coetanei, ed è determinato a realizzarlo, a renderlo realtà. Lei, Alana, ha dieci anni di più di Randy, è introversa, impacciata, consapevole di non avere un corpo da urlo né un viso da copertina. Eppure desidera fare cose precluse a ragazze dal fisico mozzafiato e dal viso d’angelo. Alana non ha la doppia faccia. Le manca, d’altronde, proprio quel viso d’angelo che secondo l’immortale Totò “è bono pe’ ingannà”. Le mancanze della coppia sfigata e improbabile sono chiare. E pure i punti di forza. La rievocazione della Valle di San Fernando all’inizio del 1970 coglie nel segno da questo punto di vista.

Il darwinismo antropologico del redivivo Paul Thomas Anderson va in profondità. Invece di fermarsi in superficie. Con Il filo nascosto il carattere misterioso della poesia era latitante. Sostituito dal poeticismo. In Licorice Pizza l’imperizia di aggiungere poesia alla poesia per razionalizzare l’assurdo – che ne Il filo nascosto consisteva negli esami comportamentistici concernenti lo stilista ora fine e distaccato come Gianni Agnelli ora assillante come l’ultimo dei popolani e ne Il petroliere pagava dazio ai timbri contemplativi frammisti al dinamismo dell’azione – cede spazio a una tenuta stilistica capace di scompaginare la logica dei generi. Paul Thomas Anderson torna a ricavare linfa dal suo nume tutelare per eccellenza, Robert Altman, appaiando la struttura dell’affresco corale e dell’humus riflessivo sull’esempio di Nashville ai motivi d’incertezza dei viaggi di formazione. La geografia emozionale dapprincipio rifiuta ogni ghirigoro. In seguito, quando l’azienda dei letti ad acqua diventa un antidoto alle spossanti attese delle audizioni senza santi in paradiso, mette tanta carne al fuoco. Lo spettacolo di varietà mancato dal quindicenne che accusa la paura fisica ma non quella morale innesca un sentimento di alienazione ai limiti del grottesco. Quasi come fosse una rilettura parodistica degli apologhi sull’alienazione di Michelangelo Antonioni. Il sentimento di riscatto sposta ancor più gli equilibri del complesso architettato da Paul Thomas Anderson grazie alla solerzia scenografica, ai raccordi di montaggio, alla suspense meditabonda e alle punture di spillo destinate ai maramaldi che sparano sulla croce rocca. In primis lo strambo divo che cerca Maria per Roma minacciando a ogni piè sospinto l’impassibile quindicenne provinciale che a dispetto degli scettici avvia l’azienda con i profili di Venere adagiati sui lettini d’acqua. La dolce metà mastica amaro. La sincerità narrativa prende piede. Paul Thomas Anderson, che nelle battute iniziali spinge gli spettatori a immaginare le pieghe segrete del racconto, in seguito le mostra, le connette ai paesaggi riflessivi degli interni domestici, degli esterni ridondanti, degli spunti proteiformi ottenuti dalla densità contenutistica dell’intreccio.

Trovare l’assoluta coerenza e corrispondenza tra umorismo, sentimento, incanto e disincanto è roba da equilibristi. I due sfigati non si adattano alle pieghe degli eventi: sono degli autentici ribelli. Due figli dei loro tempi. Alla fine gli sfigati diventano “fighi”. L’amore trionfa. Il match-cut visivo, i valori drammatici, le rettifiche mordaci ne suggellano l’intramontabile energia. Il velo funebre della catastrofe rischierebbe di rovinare il prosieguo della trama, con lei coinvolta nelle banalità scintillanti della propaganda politica, sulla falsariga dello straniante Taxi driver di Martin Scorsese, e lui che la guarda di sbieco da lontano. Come fa Jack La Motta in Toro scatenato sempre di Scorsese con la moglie considerandola inaffidabile. Licorice Pizza invece procede nel finale verso scenari che mettono sapientemente alla berlina la compagine d’idioti coi soldi che si credono intelligenti. L’egemonia dello spirito sulla materia a quel punto distingue la coppia degli ex sfigati californiani. E le corse a perdifiato destinate a collimarsi romanticamente provocano un tuffo al cuore. Dopo aver suscitato attrito. Dopo aver attinto alla cultura del cattivo gusto. Dopo averla appaiata al mito della bellezza. Dopo aver superato il clima di prostrazione. Con i pani-sequenza. La tecnica. E il cuore. Paul Thomas Anderson realizza così il suo film migliore. E uno dei più significativi visti negli ultimi tempi. Da annoverare tra quelli che lasceranno una traccia nella storia del cinema. Il merito va ricercato nel titolo, nel riferimento alla catena di dischi che rimanda a Nashville e nel colpo d’ala che lo scalza. Ravvisabile soprattutto nelle prove da Oscar di Alana Haim (Alana) e Cooper Hoffman (Gary). Due interpreti sconosciuti che riescono ad anteporre la sottorecitazione all’istrionismo degli attori famosi nelle parti di supporto. Da Sean Penn, gigionesco ma efficace nei panni dell’ennesimo svalvolato pieno di soldi, a Bradley Cooper. Un maramaldo assai buffo. Mica una pizza. Uno spasso, piuttosto. Anzi, Licorice Pizza.

 

 

Massimiliano Serriello