Povere creature!: distorsione visiva ed energia espressiva di Yorgos Lanthimos

Osannato dai seguaci dell’elitario cinema di pensiero, in virtù dell’oltranzismo stilistico riscontrabile specie nell’uso speculare del grandangolo, snobbato dai seguaci dei film di presa istantanea, che bollano come mattonate indigeste le opere più applaudite dagli spettatori scaltriti, l’esperto regista greco Yorgos Lanthimos cerca con la fantasy comedy Povere creature! di mettere tutti d’accordo.

L’arduo proposito di dare un colpo al cerchio della forza significante dell’emblematica distorsione visiva, in grado di approfondire l’intenso rapporto tra habitat ed esseri umani d’ogni sorta, e uno alla botte dell’immediatezza espressiva prende piede tramite l’omonimo libro illustrato del poliedrico romanziere inglese Alasdair Gray.

Le cui peculiari impaginazioni postmoderne, inclini ad amalgamare cultura alta e cultura bassa, ispirano il fido screenplayer australiano Tony McNamara, artefice già del plot dell’affresco storico La favorita che ha permesso a Lanthimos di aggiudicarsi l’Oscar di best director, spronandolo a redigere una sceneggiatura zeppa di rimandi citazionistici, facondia dialogica, battute al vetriolo ed estro mordace. Il passaggio dallo storyboard di ferro alla densa scrittura per immagini trasporta subito sia i brontoloni dal palato fine sia i cuor contenti dai gusti semplici in un’atmosfera tardovittoriana dove incombono foschi presagi, sottolineati dallo stridulo accompagnamento musicale avvezzo all’antiretorica, e spazi evocativi: palazzi sontuosi ma claustrofobici, disturbanti corridoi di felice memoria, catartici piroscafi, squallidi tuguri, variopinti bordelli d’epoca, ieratici salotti. Trasfigurati ad arte sulla scorta degli effetti del cosiddetto fish-eye. Così la vicenda dell’avvenente Bella Baxter, morta suicida per sfuggire all’improntitudine del marito militare, trovata incinta tra le algide acque del fiume limitrofo dallo scienziato pazzo di turno, Godwin, tornata in vita col cervello della creatura ancora in grembo trapiantatole dall’alacre soccorritore, smaniosa di sfogare gli impulsi libidici e conoscere il mondo, trae linfa dal mix d’interni asfissianti a semisfera ed esterni favolistici in campo lungo.

L’assenza dell’aura contemplativa, che conferisce di norma alla catena degli eventi la sottigliezza poetica dei semitoni carichi di significato, è sopperita dal compiuto brio narrativo. Mentre nella prima parte l’ostentato senso di alienazione cede la ribalta alla sensazione di déjà vu, richiamando alla mente ora lo spassoso Frankenstein Junior ora il tragico The Elephant Man, nella seconda parte gli stilemi del road-movie, frammisti alla spontaneità di tratto della sarcastica protagonista con gli esilaranti motteggi sempre in canna, affrancano l’assunto dall’impasse degli spunti saccheggiati a destra e a manca. Il carattere d’ingegno creativo emerge quindi quando l’opportuno dinamismo dell’azione prevale su qualche modalità esplicativa di troppo. Celata dietro i segni d’ammicco dei movimenti di macchina a schiaffo e degli insistiti carrelli in avanti. La carnale sensualità dell’indocile Bella, promessa in sposa all’allievo devoto dello scienziato prodigo di paterne premure, decisa però ad assaporare i gemiti del sesso col vizioso avventuriero Duncan Wedderburn, per poi ricavarne profitto motu proprio nella Parigi di metà Ottocento, lontana dall’opprimente ovile, tende ad appaiare crudezza oggettiva ed epidermica esuberanza. Il personaggio, simbolo della rivolta femminile a dispetto dei diktat d’una società maschilista, cadrebbe preda dell’ovvia enfasi di maniera se non fosse animato dall’idoneo valore terapeutico dell’umorismo.

Emma Stone, musa internazionale per eccellenza dell’ambizioso e sagace Lanthimos, merita un supplemento di applausi per la destrezza mimica che dona palmo a palmo all’inobliabile Bella. Accanto a lei, comunque mai sopra le righe, il pur apprezzabile istrionismo recitativo di Mark Ruffalo nel ruolo dell’involuto Duncan, divenuto vittima di un’irrefrenabile gelosia, risulta più programmatico. Ad acquisire man mano lo stesso appeal è invece la magistrale performance di Willem Dafoe alias Godwin. Che, al di là dell’ammirevole supporto dei truccatori capaci di garantirgli una maschera da freak con mille cicatrici addosso, assai gradita ai cultori dell’horror-gotico, sa rapire nella commozione in zona Cesarini persino le platee più restie a tirar fuori il fazzoletto. Anche senza spingere nessuno a gridare al capolavoro, ad appannaggio d’irrangiungibili maestri della levatura di Wim Wenders e Aki Kaurismäki, estranei ai vani compiacimenti della contaminazione dei generi, Povere creature! compendia egregiamente lo stesso le sempiterne dispute tra cupio dissolvi e amor vitae, tra sussulti di piacere ed empiti di riscatto. Mettendo, una tantum, le dotte tecniche di straniamento al servizio pure del fulgido divertimento nel buio della sala. Un benemerito balsamo contro la noia di piombo procurata dallo stuolo dei presunti autori pieni d’arie e poveri d’idee.

 

 

Massimiliano Serriello