Richard Jewell: il dramma dell’eroe sotto torchio secondo Clint Eastwood

Quandoque bonus dormitat Homerus. Quello che l’adagio latino intendeva per Omero, intento a schiacciare un pisolino tra l’Iliade e l’Odissea, vale anche per i decani del cinema. Non è esente da qualche passaggio a vuoto neanche il veneratissimo regista inglese Ken Loach con l’ultima fatica Sorry we missed you. Stessa cosa vale per l’intramontabile Clint.

L’attore feticcio di Sergio Leone, divenuto dietro la macchina da presa un autore coi fiocchi, dallo stile classico, in grado di mandare a carte quarantotto con la forza significante dei rigorosi ed empatici semitoni qualunque tendenza di punta dei propri superbi colleghi, sembra mostrare la corda in Richard Jewell.

Sia ben chiaro, non è un fatto d’età: a dispetto delle ottantanove primavere l’ostinato Clint nel 2019 era riuscito a impreziosire il previo Il corriere – The mule, apologo sul rimpianto tanto buffo quanto toccante, con una profonda verità d’accenti suggestivi e di sfumature crepuscolari. Ora l’inesausto novantenne di buccia dura, ma dall’animo nobile, cerca invano di combinare stilemi agli antipodi mantenendo intatto il suo marchio di fabbrica. La rievocazione dell’attacco terroristico di Atlanta nel 1996 palesa, infatti, l’impasse d’insistere a battere sullo stesso chiodo, tirandone fuori concetti nuovi, e d’inquadrare al contempo, tramite l’evidente crescendo di pathos, l’altalena di strazio ed euforia sul terreno, assai ripido, della dimensione pubblica che investe, di conseguenza, pure il versante privato.

Nonostante abbia personalità da vendere, per cui di norma infonde un timbro distintivo sin dall’incipit anziché trarre linfa dall’altrui ingegno, Clint cade subito in contraddizione con la premessa che richiama alla mente il mesto thriller Cop Land contraddistinto dalla prova dimessa di Sylvester Stallone nei panni d’un impacciato sceriffo sovrappeso.

La goffaggine di Paul Walter Hauser nel ruolo della guardia privata del titolo, Richard Jewell, coglie comunque nel segno lì per lì. L’ottima cura dei particolari, con gli interni domestici che emanano il calore umano della mamma del fragile protagonista impersonata dall’intensa Kathy Bates, ricava ulteriore vigore dall’opportuna tecnica luministica. A lungo andare, però, l’insistito ricorso ad alcuni tagli di luce dalla valenza simbolica piuttosto grossolana si rivela incapace di aggiungere qualcosa di concreto ai chiaroscuri psicologici.

Lo sforzo di conseguire risultati estetici tali da raggiungere il punto di tensione massimo nella vanagloriosa polivalenza creatasi tra il dinamismo dell’azione, con certi attimi culminanti che tengono gli spettatori sui carboni ardenti, e la dinamicità interiore cara ai maestri dei ricami introspettivi, manca degli idonei colpi d’ala. Mentre l’uso discreto degli stilemi dell’affresco corale, riscontrabili nel ballo di gruppo sulle note del tormentone da discoteca La Macarena, destinato a cedere spazio allo scoppio inopinato dell’ordigno, dimostra una lodevole virtù d’osservazione, sul piano antropologico, i movimenti di macchina a schiaffo risultano piuttosto pasticciati.

Appare più persuasivo il volto rubicondo di Richard che, dopo aver segnalato alle forze dell’ordine la borsa contenente l’esplosivo riuscendo quindi a mettere in salvo molte vittime potenziali, unisce gioia e imbarazzo dinanzi ad attestazioni di stima per lui, fino a poche ore prima, a dir poco mirabolanti. Quando l’incanto s’infrange, col sospetto insinuato da un ex datore di lavoro meschino che l’eroe per caso corrisponda al profilo del fanatico terrorista, l’incerta camera a mano, inadatta ad accrescere la tensione formale sulla scorta dei giusti esiti contenutistici, finisce nel dimenticatoio.

Ne prendono il posto i continui zoom in avanti, contemplati dal padre putativo Sergio Leone, privi però della medesima efficacia sotto l’aspetto dello scandaglio liricizzante. Le punture di spillo riservate agli alteri uomini dell’FBI, riveriti dapprincipio dal velleitario Richard, animano, comunque, il copione. Al pari degli intermezzi burloni garantiti da Sam Rockwell. In stato di grazia nei panni dell’avvocato con la battuta sempre in canna, deciso a difendere con tenacia i diritti dell’assistito mortificato altresì dal cinismo di una cronista d’assalto avvezza alle fake news interpretata da Olivia Wilde.

Il predicozzo, al contrario, nei confronti di quei giornalisti, alieni al codice deontologico che richiede l’obbligo delle verifiche, del peso informativo al servizio della collettività, invece che dell’ego volubile, e soprattutto del concetto di aletheia, inteso come lo svelamento della verità dei fatti accaduti, pencola presto verso la retorica del ravvedimento.

I plagi stilistici, spacciati per sentiti omaggi, che a ben guardare tradiscono vari debiti, frutto dell’accidia, con Tutti gli uomini del presidente di Alan J. Pakula ed Erin Brockovich – Forte come la verità di Steven Soderbergh, nuocciono al senso genuino del ritmo impreziosito dal montaggio dell’esperto Joel Cox. Il commento sonoro di Arturo Sandoval sciupa con l’innesto delle accanite componenti manieristiche un paio di occasioni, se non memorabili, degne di elogio.

L’imprevista egemonia in Richard Jewell dell’enfasi sull’asciuttezza privilegia in tal modo solo lo sviluppo dei momenti mélo. La complicità cementata dall’ironia con il legale che non le manda a dire diviene una sottolineatura ampollosa. Il sussulto d’orgoglio di Richard, stanco d’ingoiare fiele e di sputare dolce, lascia lo stesso l’amaro in bocca. Il check-up dei princìpi virili dell’ennesimo Forrest Gump, che conserva in casa un arsenale per vincere l’angoscia, resta assai sommario. Nonostante i reiterati cucchiaini di zucchero in lode all’innocenza del mito della sana reazione. Formuliamo l’augurio spassionato che il vecchio leone Clint torni a ruggire senza dare mai più un colpo al cerchio degli schietti cavalli di battaglia e l’altro alla botte delle fatue idee prese in prestito.

 

 

Massimiliano Serriello