Sono solo fantasmi: i Ghostbusters secondo Christian De Sica

I semitoni evocativi sparsi qua là nella horror comedy Sono solo fantasmi di Christian De Sica, quantunque stentino a riscattare l’uso invadente delle cadenze care al grande pubblico, allergico ai dispendi di fosforo che decreta il successo dei film al botteghino, risultano piuttosto rivelatori.

Innanzitutto, come ha rimarcato lo stesso De Sica, ambire a diventare attore, avere un genitore della levatura del compianto Vittorio De Sica e perderlo prima di cominciare, è una disdetta.

Il desiderio di rendergli omaggio, sia pure implicitamente, sull’esempio dell’inimitabile Alberto Sordi, bravissimo viceversa, da par suo, a replicarne i celebri nonché teneri vezzi in chiave comico-sentimentale nel sapido Scusi, lei è favorevole è contrario?, sembra destinato a pagare dazio all’adagio latino Ubi maior minor cessat: la voglia di far riflettere, benché ironicamente, deve cedere giocoforza il passo alla necessità di far ridere a crepapelle.

Dare un colpo alla botte della comicità spensierata e l’altro al cerchio di uno status d’autorialità ingentilito dal senso di appartenenza, intento ad anteporre le ragioni del cuore ed ergo del sangue a quelle dell’intelletto, è assai improbabile.

Tuttavia, la storiella del mago in declino, impersonato dall’alacre Christian sfoggiando le arcinote forme-bandiera del romanesco venate di una sotterranea mestizia, concede, insieme ad alcune palesi banalità, degli spunti degni di nota.

Spunti ravvisabili nei silenzi eloquenti dei domestici del padre partenopeo, passato a miglior vita senza riuscire a ricucire i rapporti con i propri figli, nella variante umoristica fornita dal loro spassoso vernacolo puteolano, ritenuto un forestierismo persino dagli abitanti di Pozzuoli, e nel dolce passaggio, in zona Cesarini, dal colore al bianco e nero.

I siparietti, invece, relativi al gergo meneghino acquisito dal fratello trapiantato a Milano, che poi esce al naturale, aggiungono ben poco alla farsa sui timori atavici del popolo napoletano. Lo stesso vale per la patina della geografia emozionale che lascia sullo sfondo gli scorci paesaggistici della città contraddisinta dai chiari mutamenti del Vesuvio.

Le sequenze da brivido, coi defunti capaci di mettere paura sul serio alle platee già appagate dall’interazione tra ‘O sole mio e la canzone in salsa twist You never can tell, divenuta immortale grazie a Pulp Fiction, traducono, da copione, i motivi d’apprensione in coefficienti spettacolari. Non troppo saldi, tuttavia, a dispetto dell’apparente cura, giacché la ridda dei turbamenti interiori, per i trapassati decisi a mandare tutto a carte quarantotto, mal si amalgama al contraltare caricaturale.

Al posto delle cavillose gag d’alleggerimento si fa strada così il riverbero malincomico del fratello nascosto, affetto da disturbi della personalità. La prova di Gianmarco Tognazzi, volta ad appaiare la mimica sopra le righe al carattere d’autenticità della sottorecitazione, offre maggiori motivi d’interesse rispetto ai pezzi d’istrionica bravura clownesca di De Sica e Carlo Buccirosso nel ruolo del falso bauscia.

Sebbene l’inane fluidità dei movimenti di macchina e della slow motion impiegata per ribadire l’ovvia agnizione appaghi il desiderio d’intrattenimento dei fruitori dai gusti semplici, lasciando per il resto il tempo che trova, dall’ennesimo codice di folclore grossolano affiora il garbo dell’etereo rimpianto.

Mentre le bizzarre (dis)avventure dei Ghostbusters all’italiana appaiono in Sono solo fantasmi troppo futili per trasportare gli spettatori scaltriti in una dimensione esoterica dai timbri antropologici, a differenza delle sottovalutate chicche dei fratelli Vanzina, in cui la festosità d’accenti va sempre oltre l’inane bozzettismo, dietro le discutibili presenze demoniache s’annida qualcosa di più di una macchia di colore o delle inutili note patetiche.

Si tratta dell’audacia di preferire, almeno una volta, agli attimi di distensione, appesantiti dal déjà-vu, la forza profonda dei calorosi vincoli familiari e delle nobili ombre. Ad Maiora.

 

 

Massimiliano Serriello