Stasera in tv Porte aperte di Gianni Amelio, con Gian Maria Volonté ed Ennio Fantastichini

Stasera in tv su Rai Storia alle 21,10 Porte aperte, un film del 1990 diretto da Gianni Amelio. Il soggetto è ispirato all’omonimo romanzo di Leonardo Sciascia pubblicato nel 1987. Il film è stato presentato nella Quinzaine des Réalisateurs al 43º Festival di Cannes. Il titolo del film riprende quello del libro, e in una scena del film si comprende chiaramente il significato dell’espressione, quando si fa riferimento alla propaganda fascista. Secondo quest’ultima, la pena di morte sarebbe stata un deterrente sufficiente a garantire agli italiani di poter vivere con le “porte aperte” anche di notte. Una tesi che viene messa in dubbio dal protagonista del film in una discussione con un collega. Prodotto da Angelo Rizzoli, con la sceneggiatura di Gianni Amelio, Vincenzo Cerami e Alessandro Sermoneta, la fotografia di Tonino Nardi, il montaggio di Simona Paggi, le scenografie di Franco Velchi, i costumi di Gianna Gissi e le musiche di Franco Piersanti, Porte aperte è interpretato da Gian Maria Volonté, Ennio Fantastichini, Renato Carpentieri, Renzo Giovampietro, Tony Palazzo, Tuccio Musumeci, Silverio Blasi. Il film ricevette una candidatura all’Oscar per il miglior film straniero e vinse quattro European Film Awards (miglior film, Premio speciale della giuria a Gian Maria Volonté, Prix Fassbinder a Ennio Fantastichini, miglior fotografia a Tonino Nardi), quattro David di Donatello (miglior film, miglior attore protagonista a Gian Maria Volonté, migliori costumi a Gianna Gissi, miglior sonoro a Remo Ugolinelli), due Nastri d’Argento (regista del miglior film a Gianni Amelio, migliore attore non protagonista a Ennio Fantastichini) e tre Globi d’Oro (miglior film, miglior attore a Gian Maria Volonté, miglior sceneggiatura a Gianni Amelio, Vincenzo Cerami e Alessandro Sermoneta).

Trama
Nella Palermo degli anni trenta un giudice, Vito Di Francesco, tenta a suo modo di opporsi, a termini di legge, alla condanna a morte di Tommaso Scalìa, ormai destinato alla pena capitale per aver ucciso, nello stesso giorno, con una baionetta il suo ex datore di lavoro, avvocato Spatafora ed un ex collega, nonché la moglie, con una pistola. Il giudice si scontra con i poteri dello Stato e con lo stesso imputato il quale, invece, chiede di essere fucilato. Nonostante tutto, Di Francesco riesce ad ottenerne l’ergastolo, poiché non crede nell’efficacia della pena di morte e giudica tale pena più crudele degli stessi omicidi commessi dall’accusato. Per il suo gesto, non gradito alle gerarchie, Di Francesco verrà trasferito per punizione in una pretura di scarso rilievo e la sua carriera sarà rovinata. Il film si conclude con la scritta in cui si riferisce che Scalìa verrà condannato a morte in appello e fucilato.

Come è nato il progetto di Porte aperte?

È stato il produttore Angelo Rizzoli a propormelo. Inizialmente il romanzo di Sciascia non mi sembrava molto interessante. Poi però mi ci sono appassionato perché non bisognava tradurlo sullo schermo così come era scritto ma consentiva di muoversi con grande libertà. Ed infatti quando io e Cerami abbiamo cominciato a preparare la sceneggiatura, lo avevo già dimenticato – non come spunto naturalmente ma come fatto letterario. In generale non amo molto il film “a tesi” e anche quando ho trattato apparentemente il “Grande Tema” l’ho fatto sempre in modo trasversale. Colpire al cuore per esempio non è un film sul terrorismo come I ragazzi di Via Panisperna non è un film sul nucleare. Anche in Porte aperte ho voluto costruire una seconda vicenda all’interno della storia che il film raccontava, sviluppando i lati marginali del romanzo. A chi mi ha rimproverato di non essere stato fedele al libro – ma non vedo poi il perché di una fedeltà – potrei rispondere che a sua volta Sciascia non ha rispettato la cronaca.

Quindi in Porte aperte si riconferma la tua tendenza a raccontare una storia dentro l’altra.

Soprattutto in Porte aperte. D’altra parte io non mi sono mai posto la questione di fare il mio film. Ho sempre realizzato film su commissione o, come mi piace definirli, “d’occasione” – voglio dire che ho mediato tra la leggibilità per il possibile committente e la mia libertà di sviluppare dei “messaggi” che nudi e crudi non sarebbero mai passati. Per esempio il mio primissimo lavoro, La fine del gioco (1970) – girato in un momento in cui era d’obbligo il taglio sociale – sulla carta doveva affrontare il problema dei riformatori e svolgersi interamente in una casa di correzione minorile di Catanzaro. Poi lo ambientai tutto su un treno e il discorso sulle carceri passò in secondo piano rispetto al rapporto che volevo sviluppare tra i due protagonisti. E questo discorso vale per tutto.

La figura del giudice è molto complessa e mi sembra che si definisca progressivamente strutturandosi su diversi piani narrativi.

Nel romanzo di Sciascia il giudice è, dal primo capitolo, una persona contro corrente che insegue i suoi rovelli ideologici. Nel mio film invece, proprio perché non volevo mettere in rilievo questa sua eccezionalità ideologica, è uno come tutti gli altri e la sua diversità emerge a poco a poco. Intorno a lui ho voluto creare un coro di gente conformista e ovvia, dai colleghi ai parenti, che gli pone, quasi sotto forma di ricatto, questa sua diversità come un problema. Il mio personaggio fa i conti soprattutto con gli altri, con suo padre, con sua figlia e con l’imputato in quanto essere umano “fisico”, cioè con le sue urla, la sua voce, la sua presenza concreta. Come ne I ragazzi di Via Panisperna ho pensato più al “fisico” che alla fisica, qui ho cercato di tenere i personaggi con i piedi per terra, per raccontare dei disagi che non sono solo ideologici ma legati alla vita di tutti i giorni.

Infatti il rapporto tra il giudice e l’assassino progressivamente oltrepassa il problema giuridico ed etico scivolando su un plano fortemente emotivo.

Esatto. Per esempio il giudice compie alcune azioni assolutamente prive di una precisa ragione giuridica, quasi imbarazzanti, come assistere alla perizia psichiatrica o visitare il figlioletto dell’imputato nell’ospizio per vecchi. In altre parole c’è sempre qualcosa che aspetta di essere chiarito razionalmente perché io non voglio mai dare una ragione precisa a certi comportamenti. Piuttosto la mia ambizione è che tramite un gesto, magari oscuro, dettato da ragioni non solo ideologiche, si riesca a illuminare anche l’ideologia.

Porte aperte ripropone una costruzione basata prevalentemente sull’antagonismo di due caratteri principali.

Non ho mai fallo un film con un solo protagonista ma ho sempre diviso il personaggio in due, come se si riflettesse in uno specchio, talvolta scuro e forse deformato: in Colpire al cuore il padre e il figlio, in Via Panisperna Fermi e Majorana, ne La Città del Sole il filosofo e il pastorello, ne La fine del gioco il regista e il ragazzo del riformatorio. Alla base c’è sempre la volontà di scontrarsi e incontrarsi al tempo stesso. In Porte aperte vedo due solitudini che si fronteggiano. Da una parte il giudice, solo all’interno della cosiddetta “società dei giusti” dove nessuno la pensa come lui; dall’altra l’“ingiusto” per eccellenza che non cerca o forse non ha la solidarietà della “società degli ingiusti”, i suoi complici, i testimoni corrotti che sfilano in tribunale.

Quindi per te Tommaso Scalìa, l’assassino, è solo la punta di un iceberg ben radicato?
Ho esasperato il suo côté ideologico proprio perché non volevo che fosse il “mostro” astratto ma l’espressione politica e culturale di un mondo marcio. Non a caso le prime parole che pronuncia in tribunale sono un comizio e non una difesa. Però ammantando di ideologia i suoi delitti sembra volersi porre quasi come un ammonimento nei confronti di quel mondo di cui non costituisce l’eccezione ma la regola. La differenza sta nel fatto che lui ha il coraggio di andare fino in fondo, di uccidere e di essere ucciso. Credo che sia questo a colpire il giudice e a rendere i due personaggi emblematici di due modi di leggere la realtà.

L’antagonismo di cui parli riguarda allora una diversa visione della vita?
Ma certamente, perché l’unico taglio che mi interessa è quello “esistenziale”. Mi affascinano i momenti segreti che non illustrano immediatamente il senso di un film. Per esempio in Porte aperte la solitudine estrema del giudice mentre beve il caffè all’alba, contrapposta all’indifferenza dell’imputato che russa in attesa dell’esecuzione. Oppure il rapporto – ancora speculare – che entrambi hanno con i due figli della stessa età: il giudice di affetto formale, l’assassino di scontro viscerale. Se mi fosse stato concesso, avrei raccontato l’intera vicenda attraverso queste “sequenze non primarie”. Inoltre non volevo formulare una tesi manichea facendo del giudice l’eroe a tutto tondo che si batte contro il sistema. A me sembra piuttosto un uomo molto rassegnato, spinto a combattere, senza capire perché, una battaglia che considera perduta in partenza.

Parliamo un po’ del terzo personaggio, questo strano contadino intellettuale.
Nel romanzo rappresenta la voce di Sciascia ed è rivestito da una certa patina di snobismo. Io invece volevo che anche fisicamente fosse il più possibile ferrigno, campagnolo, quasi pesante; non lo vedevo come un “bibliomane”, un erudito, ma, appunto, come un contadino che poi, per accidente, si era imbattuto nella pagina scritta. Lui dice di avere letto settemila volumi, io penso che magari ne ha letti tre ma quelli giusti. La sua figura, molto anonima nella prima parte, si rivela in realtà un terzo polo importantissimo di mediazione, di congiunzione e di soluzione. Inserendosi fra i due personaggi antagonisti che si specchiano, egli traccia all’interno del film un nuovo percorso. Cioè, le ·parole “giuste” sono scritte nel codice o ne L’idiota di Dostoevski? Senza la giustizia di Dostoevski (o senza la vita) ha valore tutto quanto è scritto nel libro canonico della legge? Quindi, mentre il giudice dall’interno non può scavalcarla, il contadino ci riesce, perché entra nell’ordine della legge “fuori ruolo”, portando al codice un nuovo significato. In altre parole possiamo dire che senza la partecipazione concreta della gente la giustizia rischia di diventare solo una serie di articoli.

Come hai lavorato con Volonté?
Non ho moltissima esperienza di direzione di attori forti. Per certi versi mi spaventano perché spesso non hanno la capacità di mettersi in discussione. Volonté invece non è un attore di metodo ma di sensibilità, di scavo personale. Spesso lavora su coordinate sue che sfuggono al regista. Perciò è importante intendersi sul percorso del personaggio prima che il film cominci. Poi penso che si debba agire con lui come un direttore d’orchestra con il suo più grande violinista, facendo in modo, cioè, che il suo suono si inserisca tra gli altri nella maniera migliore.

E Fantastichini?
Tra i giovani attori italiani mi sembra il migliore. È un talento di grandissima complessità perché è un sorprendente miscuglio di razionalità e di istinto. Ciò che mi colpisce di più in lui è la sua capacità di essere contemporaneamente teatrale e anti-teatrale, un attore di grande studio e di totale naturalezza. Al di là di Porte aperte per me la sua interpretazione più straordinaria rimane I ragazzi di Via Panisperna dove poteva appigliarsi a pochissime cose “fisiche”. Tommaso Scalìa, l’assassino, è un personaggio “facile” rispetto a quello di Fermi giocato tutto sulle sfumature, in contropiede più che in attacco.

L’ambientazione del film sembra evitare i riferimenti storici e geografici diretti.
È una cosa voluta. Per esempio ho girato la sequenza finale con l’idea che si svolgesse oggi. Per quanto riguarda la Sicilia, l’ho liquidata all’inizio sotto forma di carta geografica, cercando di spogliare al massimo i miei personaggi di tutti quei tic comportamentali della sicilianità di riporto. Volevo arrivare ad una concretezza che, pur mostrandoli in un ambito specifico, permettesse di allargare la visione anche ad altre latitudini.
(Intervista a cura di Cristina Piccino, n. 294 di «Cineforum», Maggio 1990)

 

 

Luca Biscontini