Una sconosciuta: opera seconda per lo scrittore Fabrizio Guarducci

La scrittura è un conto; la scrittura per immagini, un altro paio di maniche. Alcuni registi sono dei caproni; eppure dietro la macchina da presa sopperiscono alla scarsa densità lessicale con la pienezza espressiva ed evocativa dei movimenti di macchina, con la forza significante dell’inquadratura, con la maestria di scrivere con la luce. Viceversa alcuni scrittori prestati al cinema una volta dietro la macchina da presa disperdono il carattere d’ingegno creativo tralignando l’antiretorica in enfasi di maniera.

Che tipo di regista è l’appassionato ed esperto scrittore Fabrizio Guarducci, già autore di Mare di grano? Conosce meglio la teoria della pratica in virtù dell’esperienza maturata presiedendo l’Istituto di Scienze Cinematografiche di Firenze, traendo linfa dall’intesa collaborativa stabilita insieme ad Antonioni e Nikita Sergeevič Michalkov, oppure dimostra all’atto pratico di avere le qualità per fare un film che rievoca la dimensione mitopoietica di Chianciano Terme?

Lì Federico Fellini girò le sequenze di in cui l’alter ego impersonato da Marcello Mastroianni cerca nella quieta della cura e del riposo l’estro perduto. Una sconosciuta, l’ultima fatica di Guarducci, riesce quindi ad appaiare la geografia emozionale all’aura contemplativa? Chiariamo subito che si tratta di un’impresa quasi proibitiva. Come mettere una carezza in un pugno sulla scorta dell’omonima canzone di Adriano Celentano. Guarducci l’affronta per conferire al rovello dei sentimenti connessi al ritorno nei luoghi dell’anima alcune suggestioni cariche di significato. E quali sono queste suggestioni? La riapparizione di Beatrice, pedinata dalla canonica inquadratura di quinta mentre percorre il territorio eletto ad attante narrativo e ad antidoto contro qualunque trattamento superficiale ed esornativo, tradisce subito, sul piano della penetrazione psicologica, una piega programmatica piuttosto infeconda. Il desiderio d’intrecciare il teatro nel teatro con il palcoscenico allestito per le prove dall’immusonito ma garbato drammaturgo Daniele, incarnato da Sebastiano Somma in maniera decisamente scolastica, al pluralismo dei punti di vista d’ascendenza pirandelliana e alla ricchezza di sfumature di Shakespeare, il Grande Bardo, paga dazio alle deleterie sbavature patetiche. Sopperite qua e là dalla destrezza recitativa di Sandra Ceccarelli nella parte di Beatrice. L’alterazione cromatica, il mutamento di prospettiva, la voce fuori campo che accompagna il viaggio indietro nel tempo andando a pescare scene sin troppo simili a quelle del ben più erudito ed emozionante scandaglio intimistico e sociale Splendor di Ettore Scola, non alzano granché il tiro.

L’interazione tra habitat ed esseri umani è scandita dall’infeconda ridondanza delle note scelte dalla colonna sonora senza accrescere certo la facoltà di pensare e sentire. Di conseguenza la penuria d’un autentico sguardo riflessivo sulle piazze, le fontane, i vicoli, il ripiego panteistico, le strade percorse da individui col morale costantemente sotto i tacchi diviene una disdetta per il volto dolente, avvenente, serio e sofferto di Sebastiano Somma. Che nelle vesti intristite di Daniele ripensa ai tempi lieti rammenta quando portò in scena nientepopodimeno che Il mercante di Venezia del Grande Bardo. L’attitudine a ritenere belle unicamente le cose successe nel passato, i continui raccordi di montaggio, le modalità esplicative in merito alla musica che sembra riunire i coniugi in crisi, lo spettro dell’inganno e del disinganno, l’impasse delle opere a tesi, gli stilemi delle soap opere, estranee tanto alla sbrigliatezza fantastica degli apologhi visionari quanto alla crudezza oggettiva dei documentari, allontano Una sconosciuta dall’analisi condotta a largo raggio dai film che partendo dagli sviluppi imprevisti innescano un clima di mistero appassionante. E quindi di che mistero si tratta qui invece? Di un mistero meditabondo ed ergo privo di sugo? L’elaborazione del lutto per la figlia della coppia scoppiata dal dolore cade nell’inane dolciastro. Ragion per cui il ritmo impresso all’assunto subisce una consistente perdita di quota. La mancanza del particolare pregio culturale necessario ad andare oltre i trapassi di tono e i segni d’ammicco in slow motion per l’approdo nel microcosmo di una sconosciuta che accende la fantasia degli abitanti di quello spazio ritenuto troppo respingente, anziché rialzare il tono della trama ridotta a pretesto per esibire il ritorno alla vita d’una comunità chiusa nel proprio guscio, innesca l’egemonia dell’inutile particolarismo sull’opportuna compiutezza dei semitoni.

I monologhi interiori persino delle figure di fianco, compreso il cameriere che si ritiene fortunato di servire una donna così affascinante, sensuale ed eterea, cadono nel ridicolo involontario della stasi obbligata. Che con l’aura contemplativa c’entra poco o nulla. Ma cosa vorrebbe contemplare Guarducci in definitiva? I silenzi eloquenti della suddetta sconosciuta. La bellezza del silenzio, descritta in maniera ampia ed esaustiva su carta, fa però un buco nell’acqua tradotta nel linguaggio cinematografico fa però un buco nell’acqua. L’illusione di mescolare il vero e il falso, il ridondante e l’essenziale, il cicaleggio della provincia, che ricorda sotto alcuni aspetti Divorzio all’italiana di Pietro Germi, e il timbro rivelativo delle parabole sulla caducità dell’esistenza frammista all’ampio margine d’enigma riposto nei ritratti muliebri pregiudica gli sviluppi dell’intrigo con un mero didascalismo. L’omaggio all’angelo femminile che ha riportato la gente in piazza ha più meriti apparenti che sostanziali. Il desiderio di uscire, di confrontarsi, di prendere le distanze dal cinismo, dalla diffidenza, dal disinganno alla prova del nove appare decisamente telefonato. Le confessioni delle donne del posto, la dinamica in campo e controcampo, la voluttà di arricchire il quadro di speranza con il valore dell’immaginazione richiederebbero momenti stilisticamente inventivi. Guarducci li raggiunge in scrittura. E li smarrisce nella scrittura per immagini. Una sconosciuta sancisce così l’ennesimo impasse degli scrittori prestati alla fabbrica dei sogni che non hanno dimestichezza col rapporto tra passato e presente. Né in quello tra immagine e immaginazione.

 

 

Massimiliano Serriello