Mondospettacolo incontra Alessandro Sardelli, attore cinefilo e poliedrico

È soprattutto un cinefilo. Cresciuto animando i consorzi domestici, in seno alla famiglia, con le battute imitate alla perfezione rimasta nella storia della fabbrica dei sogni sugli scudi. Lontano dal focolare domestico, come spiega indirettamente Lawrence Kasdan nel cult movie generazionale Il grande freddo, rielaborato da Carlo Verdone in Compagni di scuola, è la freddezza di chi trae partito da Gli esami non finiscono mai di Eduardo De Filippo ad andare per la maggiore.

Gli esami che fanno tremare le vene e i polsi di dantesca memoria Alessandro Sardelli li ha superati a pieni voti. Partendo da La macchinazione di David Grieco sino ad arrivare a Manuel di Dario Albertini e a Yuria di Mattia Riccio. Alessandro non intende fermarsi. Sarebbe un peccato. Poi, amen: sarà quel che sarà. Intanto Mondospettacolo l’ha incontrato per sapere come la pensa.

 

La passione per il cinema è l’antidoto contro l’assenza d’inquadramento sindacale della categoria degli attori che lavorano sul personaggio e su se stessi senza darsi la “calla”?

Che bella domanda, Massi! Accidenti. Guarda, non avrei mai pensato di fare l’attore. Non pensavo che quella dell’attore potesse divenire un’autentica professione. Ma ora che ci sono non mi voglio fermare. Senza illudermi. Mi fai ammazzare dalle risate per come l’hai conclusa la domanda. Darsi le “calle”. Il mondo del cinema è un ambiente che fa sognare. Però può illudere. Occorre tenere i piedi per terra. Mettercela tutta. Aderire alle dinamiche interiori ed esteriori del personaggio mi viene spontaneo. Ho preso spunto dai miei film preferiti: Il padrino con Al Pacino e Quei bravi ragazzi con Joe Pesci, il mio attore del cuore. In ogni caso so che non è tutto rose e fiori. Ed è giusto così.

 

Il posto al sole nel mondo del cinema bisogna guadagnarselo evitando di accampare scuse se solo “uno su mille ce la fa” come recita la celebre canzone?

Per la precisione. Non avrei saputo dirlo meglio. Non voglio fare come la volpe con l’uva. Mi gioco le mie possibilità. Con umiltà ed entusiasmo. Uno perché sono felice, anzi felicissimo, che quella dell’attore sia un mestiere per me anziché un hobby. Due perché sono consapevole che sono ancora tante le cose che devo imparare per dimostrarsi psicologicamente capace di mettersi nei panni degli altri.

 

Che poi in estrema sintesi è il mestiere dell’attore. Ricordi cosa dice a se stesso il Principe di Danimarca in Hamlet di Shakespeare (mica Spartaco detto Gnerpococco) quando prende coscienza di quanto sentimento ci mette il capocomico nell’esprimere il dolore di Ecuba per la morte di Priamo? Hai rispetto per i mostri sacri con cui hai recitato – da Massimo Ranieri a Pino Calabrese in tempi recenti – ma se il tuo personaggio deve “imbruttire” ai personaggi interpretati da questi grandi attori, o deriderli, non avverti alcun timore reverenziale. Che sentimento ti anima quando lo fai?

Parte tutto dalle indicazioni fornite dal copione sulle immagini, il contesto, la psicologia dei personaggi e le azioni che devono compiere. Nello step seguente ci sono fortunatamente pure le indicazioni fornite da questi grandissimi attori ai colleghi più giovani. Ai quali non intendono mai rubare la scena. Non ne hanno bisogno. Lì sta la loro grandezza. Il sentimento che mi anima quando interpreto un personaggio che per un verso o per l’altro va contro i personaggi interpretati dai mostri sacri che hai nominato è rafforzato dagli input che loro stessi mi danno mentre recitiamo insieme. Mi assegnano proprio il tempo di reagire con una battuta, uno sguardo, un cenno impercettibile, ma che io colgo grazie al’altruismo che li caratterizza, per calarmi appieno nel personaggio. Un ragazzo come me, che ha solo ventiquattro anni, ha ancora tutto da imparare da attori così preparati e al contempo così disponibili. È un insegnamento da non trascurare. Non voglio sperticarmi in complimenti esagerati. Però vedere come un attore meticoloso, noto ed esperto preferisca alle inquadrature allettanti la riuscita del copione è una lezione che intendo mettere a frutto. Giorno per giorno. Non si finisce mai d’imparare. A proposito, Massi, ma cosa dice a se stesso Amleto?

 

Più o meno questo: “Non è mostruoso che questo attore qui per una finzione in un sogno di passione possa sottomettere l’anima alla sua immaginazione al punto tale che il volto gli si è sbiancato? Gli sono scese le lacrime dagli occhi. Gli si è stravolto l’aspetto. Gli si è spezzata la voce. E ogni sua facoltà dà forma a sentimenti suggeriti. E tutto questo per chi? Per Ecuba. Chi è Ecuba per lui e lui per Ecuba che debba piangere per lei?”.

Ammazza! Ricordi tutto. Ma come fai?

 

Ho letto il libro e ho in testa il film con Kenneth Branagh doppiato da Massimo Popolizio e Charlton Heston (il capocomico) da Gigi Proietti. Per ristabilire i ruoli, sennò le domande le fai te, parliamo per metafora: sul set prima di piangere per Ecuba quanto è importante ridere e scherzare?

La tensione sul set potrebbe giocare brutti scherzi se non si riuscisse a stemperarla col senso dell’umorismo. Altrimenti ci si prende troppo sul serio. Le cose chiaramente vanno fatte sul serio. Ci mancherebbe. Ma senza avvertire troppo lo stress. Altrimenti si lavora male. Il lavoro dell’attore su se stesso e sul personaggio, come dici tu, acquista parecchi punti nel momento in cui tra colleghi si stabilisce l’intesa rafforzata dalla voglia di ridere e scherzare. Anziché dalla voglia di apparire.

 

Si sa: non conta apparire; conta essere. Andrea Autullo è un attore spontaneo ed empatico che trascende i limiti dei caratteristi a cui concedono poche pose. Tu ci hai recitato, insieme a Francesco Rodrigo, nel film in cui c’è pure Pino Calabrese. Manteniamo il riserbo sulla trama. Su Andrea che mi dici?

Concordo con te. E capisco perfettamente cosa intendi. Andrea Autullo è esattamente come dici: l’hai inquadrato alla perfezione. Anche per lui devo usare l’aggettivo “generoso”. E voglio sottolinearlo anche di più. Pur avendo meno pose qualche volta degli attori principali Andrea stabilisce sul set un clima di complicità. Rispetta tutti. Col sorriso sempre sulle labbra. E la voglia sana di prendere in giro. Di fare battute prima di girare una scena seriosa. Come fanno i romani veri. Che dicono pane al pane e vino al vino. È più facile, tornando all’Amleto, piangere per Ecuba dopo aver riso con un collega così ironico e schietto.

 

La spontaneità di tratto è una benedizione. La falsità una maledizione. Tuttavia piangere per Ecuba comporta un bel dispendio di energie ed emozioni. Inasprite dalla necessità di fingere. La solidarietà invece è qualcosa che non si può fingere di avere: o ce l’hai o non ce l’hai. Emanuel Bevilacqua ne ha dimostrata tanta dandoti una dritta. Di che dritta si tratta?

Della svolta assoluta della mia vita professionale come attore. Ho visto L’odore della notte di Claudio Caligari. E sono rimasto letteralmente stregato dal film, dalla regìa e naturalmente dalle prove recitative dell’intero cast. Da Valerio Mastandrea a Marco Giallini. Due interpreti fenomenali. Con un’intesa pazzesca! Si percepiva che c’era chimica tra loro. Che calandosi in quei ruoli avevano composto i personaggi aggiungendo qualcosa di autentico.

 

Di sentito come può essere solo l’amicizia. Tuttavia a catturare appieno la tua attenzione è stato Emanuel nella parte del Rozzo. Te l’aspettavi così affabile fuori dal personaggio?

In effetti il suo personaggio, il Rozzo, era magnetico. Nella sua ferocia da ragazzo di borgata che fa le rapine con forza taurina ed estrema risolutezza, senza tradire emozioni, cattura ancor più l’attenzione dei personaggi che compaiono di più sulla scena.

 

Anche se sulla scena compare parecchio. E soprattutto incide. L’hai cercato anche perché era il più avvicinabile?

Forse. Certamente è quello che mi è rimasto più in testa vedendo e rivedendo L’odore della notte. Non avevo doppi fini: volevo complimentarmi con lui. La sua la ritengo un’interpretazione accostabile alle performance recitative di Joe Pesci. Che sembrano lì per lì da caratterista e, invece, alla prova dei fatti, sono da protagonista a tutto tondo. L’ho cercato su Facebook. Gli ho chiesto l’amicizia. Lui, oltre a concedermela, mi ha dato una dritta: segnalandomi che facevano i provini per i ruoli dei ragazzi di vita nel film su Pasolini di David Grieco.

 

La buona stella che da lassù indica il cammino è Pier Paolo Pasolini. Non è retorica di maniera: è destino. Emmanuel è figlio di Umberto Bevilacqua che in Accattone di Pasolini impersona il pappone napoletano Salvatore. Il personaggio del compare si chiama Nicola Serriello. Il mio cognome. Ma, al di là della parentela spirituale ed esistenziale tra Roma e Napoli, era destino che dovessi impersonare Pino Pelosi?

Sinceramente non ci avevo pensato. O, per meglio dire, non avevo rielaborato i pensieri in testa come hai fatto tu: sei bravissimo. Complimenti! Mi piacerebbe risponderti che Pasolini è davvero la stella che m’indica il cammino da compiere nel mondo del cinema. Ma forse è una cosa esagerata. Troppo grande. E, come mi hai detto quando ci siamo visti la prima volta, bisogna sempre mantenere i piedi per terra. Me l’hanno insegnato i miei genitori. Altrimenti, hai ragione, scatta il delirio d’onnipotenza. E l’umiltà – che è la dote più importante per imparare ad aggiungere un tassello sempre nuovo al mosaico da comporre per trovare punti d’identità stimolanti ed eclettici nel personaggio da interpretare – va a farsi benedire. Pino Pelosi è un personaggio difficile ma molto affascinante. Me lo sono studiato. Ho visto i video, le foto; ho letto le interviste. L’ultima che ha rilasciato. La vita extrascenica del personaggio era fondamentale per esplorarne il comportamento, il modo di parlare, immaginarlo giovane, ragazzo di vita, spaccone e fragile, pronto a rinnegare Pasolini per paura di essere deriso dagli altri ragazzi di vita. Claudio Caligari era una sorte di erede di Pier Paolo Pasolini. In Amore tossico i personaggi sono dei ragazzi di vita che vivono a Ostia. Che si procurano i soldi per iniettarsi l’eroina nelle vene. Che fanno le rapine. Che commettono degli sbagli. Ne L’odore della notte Emmanuel era il più bravo. Non so sul serio se sia stato destino o una semplice coincidenza, una combinazione, che facessero un provino per un film proprio su Pasolini. Ma sono felice di averlo superato. Poi David Grieco dietro la macchina da presa mi ha insegnato tantissime cose. Mi ritengo fortunato: ho una buona stella.

 

David Grieco era amico nella vita reale di Pier Paolo Pasolini, ha scritto Mortacci insieme a Sergio Citti, il co-sceneggiatore storico dell’autore di Accattone e Mamma Roma, quando Franco Citti, che rimarrà nella storia del cinema nel ruolo del protettore miserabile ma fatalista Vittorio Cataldi, detto “Accattone”, ha pronunciato uno dei pochi epitaffi sinceri mai letti. Inoltre David Grieco è un critico cinematografico con una conoscenza enciclopedica della fabbrica dei sogni. In quest’ambiente non sono rosa e fiori. Essere diretti da un regista che sa il fatto suo è un sogno?

Mi è sembrato in effetti di vivere un sogno. Superare un provino oggigiorno è difficile. Per molti attori alle prime armi il sogno può tramutarsi in un incubo. E l’incantesimo si rompe. Quando ho saputo che avrei fatto il provino per David Grieco mi sono affidato alla mia cinefilia. Che da sempre costituisce un pungolo molto forte per prendere informazioni, e nell’era dei nuovi media ormai è una cosa piuttosto facile, su David Grieco. Prima lo conoscevo per sentito dire. Dopo aver sostenuto il provino mi sono documentato meglio. Ho visto la sua opera prima, Evilenko, con Malcom McDowell, l’attore protagonista di Arancia meccanica. Il capolavoro diretto da Stanley Kubrick. Tanto di cappello. Ho pensato: è il primo provino che faccio in vita mia; mi possono pure prendere. Quando David Grieco parlava di cinema sul set era pazzesco: si creava una specie di magia. Sarebbe bello arrivare a cinquanta, sessant’anni e sapere tutte le cose che sa David Grieco.

 

Ritieni più importante per lo slancio artistico della recitazione il bagaglio culturale o quello esperienziale?

Sono basilari entrambi: David li ha tutte e due. Lui aveva il film in testa. Doveva pensare a tante cose. Mi ha dato i suggerimenti giusti. Non erano ordini. Bensì degli stimoli per approfondire strada facendo il personaggio di Pino Pelosi. Questi stimoli che mi ha dato sono ed erano dettati dall’esperienza.

 

Accumulata in anni spesi a svolgere il mestiere di critico, scrittore e infine regista. Un regista che analizza ogni cosa?

Senz’alcun dubbio. David Grieco in cabina di regia, per così dire, non lascia nulla al caso. È un intellettuale. Ma ha anche tanto sentimento.

 

Cuore e cervello. Che per Woody Allen in Crimini e misfatti non si danno neanche del “tu”. Come la vedi, Ale?

Per me cuore e cervello vanno d’accordo. Hanno confidenza. E diretto da David Grieco mi sono sentito guidato da un regista che scomponeva il testo e il personaggio pezzo per pezzo. Mi ha dato sicurezza.

 

Nel farlo ti ha spinto ad appaiare nel miglior modo possibile cuore e cervello?

Nel modo più totale. Ed è stato il cuore che ci metteva nel dirigere me il cast e nello scegliere i movimenti di macchina o le angolazioni che gli servivano, ma anche nel tirare fuori certe chicche ad animare la mia recitazione. A darmi lo sprone giusto. Ad affascinarmi. Un regista quando ci mette il cuore e il cervello occupandosi delle cose tecniche, della vita spirituale dei personaggi, dell’angolazione degli interpreti, delle carrellate e così via per me è un direttore d’orchestra.

 

Un direttore d’orchestra, per citare il compianto Massimo Troisi in Ricomincio da tre, che non deve avere complessi. Un direttore d’orchestra che i problemi li risolve. Non come Gregor l’eliminatore in Nikita di Luc Besson. Bensì come un autore che dirige gli interpreti, decide le inquadrature e i movimenti di macchina cogliendo l’essenza alla base sia degli eloquenti silenzi della scrittura per immagini sia dei palpiti dell’autentica poesia. Hai recitato senza battute in Attenti al cool. I silenzi rendono?

Ho recitato senza battute per un mio amico, Emilio Stella. Lui nasce come cantautore prima che come regista. Questo lo sai già. Ci siamo conosciuti a un’anteprima. L’intesa che abbiamo stabilito sul piano umano è stata bellissima. Un punto di partenza ideale. Il tono era scanzonato. Che per mettere in risalto una canzone, che poi è lo scopo del film, è qualcosa di singolare. Io, senza pronunciare battute, impersono un ragazzo che cerca approvazione. Che è insicuro. Ma vuole diventare sicuro. Il punto di partenza, torno a ripetere, pure in questo caso è stato il sentimento. E quindi il cuore. Poi è chiaro: per quegli eloquenti silenzi, associati alle parole del singolo musicale, serviva il cervello. La materia grigia. La linea dell’analisi interiore ed esteriore di quel personaggio era attraversata da quei silenzi. Che magari col regista che sa dirigerti, che spiana la strada, che ha le idee chiare e dà gli input come si deve, comunicano più delle parole. O comunque ci vanno bene a braccetto.

 

Sei andato a braccetto, pure per così dire, con Dario Albertini che ti ha diretto in Manuel?

Dario Albertini è un altro grande direttore d’orchestra. Mi ha diretto in una scena bellissima. Che porto nel cuore.

 

Quella della festa. Una scena visionaria e straniante. A interpretare il ruolo difficilissimo della madre di Manuel c’è la miglior attrice romana in circolazione: Francesca Antonelli. Ci mette il cuore?

Ci mette tantissimo cuore. È bellissimo vederla recitare. Il suo ruolo tocca il cuore. E fa riflettere. Mi ha insegnato tanto vedere come aderisce al personaggio della madre di Manuel.

 

Ci mette cuore e cervello. Togliendo anziché aggiungere. Non va in accumulo. La conosco bene. È una lezione per te?

Guadare da vicino una collega così brava e misurata interpretare una parte tanto difficile è una fortuna. Che non dò affatto per scontata. Anzi. E capisco cosa vuoi mettere in risalto quando parli di togliere invece di aggiungere. La misura dell’interpretazione conta tantissimo. Proprio, stiamo sempre là, per quei silenzi che comunicano più delle parole.

 

Perché sono carichi di senso. Siamo alle battute finali. Chi è l’attore Francesco Rodrigo per te?

Un fratello. Un collega pieno di talento. Un ragazzo con cui ho recitato più volte.

 

Vi capite al volo?

Ci basta uno sguardo. Abbiamo stabilito un’intesa basata proprio su quei silenzi carichi di senso.

 

E sul valore dell’umorismo caro ad Andrea Autullo.

Come no! Andrea e Francesco sono gli attori con cui mi sono trovato meglio. Mi hanno fatto ridere e riflettere.

 

Kassim Yassin Saleh come regista segue le orme tanto di Pasolini quanto di Ken Loach. Ti ha diretto nel film Il vento sotto i piedi e recentemente in un altro cortometraggio. Anche nei corti si possono comunicare tante cose?

Per l’appunto. Kassim è bravissimo in questo. Ed è vero quello che dici: il suo modo di fare cinema ricorda quello di Pasolini e Ken Loach. Ci mette tante cose nei suoi film. Si tratta di film d’autore. Pensati per far riflettere. Non per andare incontro al bisogno del pubblico dai gusti semplici di evadere solamente dalla vita di tutti i giorni con la visione di un’opera scacciapensieri.

 

Ti spinge a dare il massimo appaiare stimoli intellettuali, intese sincere ed emozioni forti se non contrastanti?

Io rubo con gli occhi per capire come interpretare nelle varie sfaccettature un determinato personaggio. Per capire cosa rimane nell’ombra e cosa va messo in luce. Cosa crea quel contrasto. Ed è là che provo a dare il massimo.

 

Ce la puoi fare, Alessa’.

Grazie di cuore, Massi.

(Photo credits: Luca Carlino, Barbara Amendola, Andrea Ciccalè)

 

Massimiliano Serriello