L’uomo dal cuore di ferro: Reynhard Heydrich in tutte le salse

La tragedia dell’Olocausto, si sa, è stata più e più volte messa in scena. Però, oltre a raccontare per immagini uno degli avvenimenti più drammatici del XX secolo, la Settima arte ha il compito di rivelarne aspetti sconosciuti ai più o di far luce su personaggi considerati – spesso erroneamente – marginali.

Questo, per esempio, è il caso de L’uomo dal cuore di ferro, terzo lungometraggio per il regista Cedric Jimenez, che qui intende mettere in scena le vicende di Reynard Heydrich (Jason Clarke), celeberrimo braccio destro di Himmler, il quale cadde vittima di un attentato a Praga avvenuto il 27 Maggio 1942 per mano dello slovacco Jozef Gabcik (Jack O’Connell) e del ceco Jan Kubis (Jack Reynor).

Tratto dall’omonimo romanzo di Laurent Binet, il film colpisce soprattutto per la singolare struttura narrativa scelta, che ci dà quasi l’impressione di trovarci di fronte a tre diversi racconti. E non soltanto per i personaggi su cui ci si concentra, ma anche per quanto riguarda l’approccio ai fatti adottato di volta in volta dal regista.

Se, infatti, la prima parte (anch’essa, come le altre, costituente un flashback che prende il via in seguito alla fatidica sequenza dell’attentato) sembra in tutto e per tutto volersi concentrare sulla vita privata dello stesso Heydrich (con uno stile alquanto intimista) e sul rapporto con la moglie (Rosamunde Pike), che tanta importanza ha avuto nella sua carriera, già nella seconda viene abbandonato il precedente stile narrativo.

E, nel mettere in scena le vicende dei due paracadutisti che hanno progettato l’attentato, il tutto pare improvvisamente assumere toni maggiormente “cronachistici”. Stesso discorso vale per la terza parte, riguardante i fatti successivi al giorno dell’attentato.

Il tentativo di ricercare nuovi modi di giocare con il racconto è pur sempre lodevole; il problema, però, nel caso de L’uomo dal cuore di ferro è che la cosa è riuscita in maniera decisamente maldestra, conferendo all’intero lavoro una struttura sfilacciata e complessivamente poco convincente.

Una struttura che ha dalla sua solo il pregio di una regia pulita e di buoni interpreti. Ma questo, purtroppo, non sempre è sufficiente.

 

 

Marina Pavido