Calibro 9: mezzo secolo dopo Fernando Di Leo

Dedicato al regista Fernando Di Leo e al produttore Ermanno Curti, Calibro 9 – disponibile sulle principali piattaforme TVOD a partire dal 4 Febbraio 2021 – intende tracciare un ponte ideale tra la malavita organizzata raccontata nel Milano calibro 9 diretto nel 1972 dal cineasta pugliese attingendo dalle pagine di Giorgio Scerbanenco e il contesto criminale della ‘ndrangheta del XXI secolo.

E, sotto la regia del Toni D’Angelo figlio nel noto cantante napoletano Nino e autore, tra l’altro, de L’innocenza di Clara e Falchi, lo fa chiamando proprio Fernando un brillante penalista interpretato da Marco Bocci, che apprendiamo presto essere nientemeno che il figlio dell’Ugo Piazza che ebbe nella pellicola precedente il volto di un memorabile Gastone Moschin.

L’Ugo Piazza che fu tra i sospettati responsabili del furto del plico in una spedizione di valuta clandestina in dollari, proprio come un cliente di Fernando si ritrova ad essere il principale indiziato in una truffa telematica da cento milioni di verdoni.

Con tanto di mitica colonna sonora di Luis Bacalov e degli Osanna rivisitata da Vincenzo Adelini ed Emanuele Frusi, è infatti immediatamente l’avvincente prologo del film originale ad essere aggiornato in chiave tecnologico-informatica nel corso dei primi minuti di visione di Calibro 9. Un prologo sicuramente più potente rispetto a questo in versione 2020, che se ne rivela comunque un degno rifacimento sfoggiando anche inaspettate dosi di violenza.

Del resto, man mano che il Piazza Jr viene affiancato dalla Alma alias Kseniya Rappoport che altro non è che la nipote di un boss calabrese e che, curiosamente, fa ritorno la Barbara Bouchet che avevamo visto morire in Milano calibro 9, non mancano gambe spezzate e abbondanti schizzi di liquido rosso durante la quasi ora e quaranta totale.

Quasi ora e quaranta destinata a tirare in ballo anche Alessio Boni nel ruolo del commissario Valerio Di Leo (ecco un altro omaggio all’autore de La mala ordina), il quale, speranzoso che le guerre tra bande rivali continuino in modo che tutti i componenti si uccidano tra loro, testimonia il cambiamento di pensiero rispetto ai due colleghi che, incarnati nel lungometraggio degli anni Settanta da Frank Wolff e Luigi Pistilli, battibeccavano continuamente nel sostenere i propri rispettivi ideali politici di destra e di sinistra.

Un Boni che evidenzia non vi sia più alcuna differenza tra buoni e cattivi; come pure, d’altra parte, già non vi era tra i personaggi dileiani del capostipite, dei quali ritroviamo il Rocco Musco cui concesse anima e corpo Mario Adorf, ora in possesso dei connotati di Michele Placido.

Un Rocco Musco che, purtroppo, risulta però decisamente poco sfruttato nello svolgimento dell’operazione, per la quale proprio ciò finisce per rappresentare uno dei principali difetti.

Perché, al di là del fatto che non poco azzardato è il confrontarsi con quello che possiamo tranquillamente classificare tra i migliori titoli della storia della celluloide italiana, tanto da rendere colui che lo concepì il degno corrispettivo italiano del maestro del noir francese Jean-Pierre Melville, Toni D’Angelo non manca di sfoggiare una solida padronanza del mezzo tecnico e, in particolar modo, del genere (ne sono una testimonianza i riusciti inseguimenti d’auto e la sparatoria dallo yacht).

Ma, pur sorvolando su qualsiasi inutile e superfluo paragone con l’inarrivabile capostipite, non possiamo fare a meno di avvertire la maniera in cui, dopo una serrata prima parte ulteriormente impreziosita dal buon montaggio di Luigi Mearelli, Calibro 9 tenda a perdersi in un rallentamento di ritmo narrativo, oltretutto penalizzato da qualche scelta da romanzo rosa che ne snatura, in un certo senso, l’origine di noir puro e duro (inaccettabile il bacio nel mezzo dello scontro a fuoco).

Rimanendo, di conseguenza, un guardabile ma non completamente convincente omaggio in epoca telematica alla nostra criminalità in fotogrammi che fu.

 

 

Francesco Lomuscio