Dark matter: il thriller psicologico di Stefano Odoardi

Nel realizzare un thriller introspettivo, avvezzo all’aura meditabonda che anima la poesia, ed ergo alieno ai coefficienti spettacolari richiesti dalle masse, al piacere dell’intrigo, tutto da scoprire, corrisponde, di contro, il rischio dell’arzigogolo fine a se stesso.

Con Dark matter quest’incognita l’ambizioso regista Stefano Odoardi, autore già d’interessanti film sperimentali incentrati sulla forza indicativa dei luoghi eletti a location, è riuscito ad arginarla rispondendo alle attese dei seguaci delle opere d’essai.

Alla penuria di scioltezza narrativa l’apologo sulla rivelazione della materia oscura replica con il carattere d’autenticità delle notazioni ambientali, col mix di suoni intradiegetici ed extradiegetici e coi guizzi immaginifici conformi alla potenza dell’invisibile. In tal senso la vicenda dell’appassionato fisico Antonio, talmente assorto nello studio delle impenetrabili particelle ancora avvolte nella coltre dell’incertezza da trascurare il figlio undicenne Thomas, sembra trarre linfa nella prima parte dall’erudito lavoro di sottrazione d’ascendenza bressoniana. L’analisi degli stati d’animo, scevri dei momenti di fulgida perturbabilità, sostituiti dalla tacita intesa col nonno impersonato dallo ieratico Orso Maria Guerrini, coglie abbastanza nel segno in virtù proprio dell’idonea antiretorica. Che all’alone di mistero ed enfasi esistenziale dei soliti noir psicologici antepone l’indubbia finezza della sensibilità figurativa. L’interazione tra l’ordine naturale delle cose e i modelli antropologici, frutto dell’essere umano, riesce così a sopperire alle vane modalità esplicative in merito al silenzio cosmico imperante nei rilievi montani di Castel del Rio. Convertiti, comunque, dapprincipio ad attanti carichi di senso.

La tensione a fior di pelle appare tuttavia troppo studiata a tavolino per catturare l’interesse degli spettatori allergici sia ai dispendi di fosforo sia alle atmosfere evocative che cadono nella noia di piombo. Quando il piccolo Thomas viene rapito da un’enigmatica donna dai modi garbati la molla del dubbio scatta, infatti, in maniera assai programmatica. L’omelia sul bisogno di mettere in luce la storia di fondo, al posto d’ogni pedestre coincidenza, affidata all’ovvietà dei dialoghi anziché all’ammaliatrice lentezza garantita all’inizio dall’etica della messa in scena, cementa il passaggio dalla capacità di scandagliare le varie zone d’ombra all’accidia di battere strade arcinote al pubblico contrario alle innovazioni stilistiche. Mentre la direzione simbolica congiunta all’inquadratura dello scontato viadotto paga dazio al modus operandi dei gialli sulle foreste inesplorate, onde rendere più recettivo il messaggio, le deleterie puntate nel patetico tralignano gli altri effetti seducenti della geografia emozionale in infecondi stilemi mélo. La componente luministica negli anfratti domestici in cerca di risposte diverse da quelle fornite nei prestigiosi convegni, lo slow motion e le correzioni di fuoco frammiste dal montaggio alternato ai cortocircuiti onirici, con l’angoscia del rimorso che viene a galla, risultano meri espedienti tecnici. Incapaci di conferire alla catena degli eterogenei eventi l’elemento d’insieme della cura dei particolari.

La fuga ultima verso il fiume, assurto ad antidoto ideale contro le derive distruttive, è piuttosto scontata. A dispetto degli sforzi profusi per riuscire ad appaiare all’andamento riflessivo i tòpoi della suspense. Il pianosequenza che pedina tra ciottoli, tronchi d’albero e ciuffi d’erba l’agognato ritorno a casa, dopo i velleitari tentativi di ricostituire l’atmosfera del sogno rivelatore, spezza una lancia al tema della spiritualità. In antitesi con la presunzione di guardare nell’abisso decifrando le innumerevoli particelle della materia oscura. L’egemonia conclusiva dello spirito sulla suddetta materia, al pari dei legami di sangue e di suolo sulla boria di penetrare la complessità dell’intero creato, chiude dunque il cerchio. Dark matter va a pescare alla prova del nove nel confronto tra il cupio dissolvi e l’amor vitae degli horror. Il trionfo dell’amor vitae decreta di conseguenza la funzionalità solo ed esclusivamente di facciata del pathos sotto le righe e dell’etica della messa in scena. Col linguaggio scarnificato ed etereo delle battute iniziali sostituito al dunque dalla risaputa morale della favola dei racconti ricchi di spunti e poveri d’estro.

 

 

Massimiliano Serriello