Don’t look up: negazionismo e menefreghismo… da Armageddon!

Era il “lontano” autunno del 2019 quando la Paramount Pictures dava l’ok al progetto di Don’t look up, acquistato poi da Netflix. Ma soltanto nel Novembre successivo, a distanza di dodici mesi, iniziavano ufficialmente le riprese del film. Cosa è accaduto nel frattempo?

Una pandemia… piombata improvvisamente nella vita di ogni cittadino terrestre, sconvolgendola completamente. Nessuno escluso, Adam McKay compreso (qui produttore, regista e sceneggiatore), che da questo periodo soffocante e mediaticamente disorientante ha forse tratto spunto per ricamare ulteriormente un soggetto nato già prima che il Covid diventasse quotidianità. Le similitudini sono plurime e ai limiti del profetico.

La trama è semplice. La dottoranda Kate Dibiasky (Jennifer Lawrence) e il professor Randall Mindy (Leonardo DiCaprio) scoprono una cometa vagante nel nostro sistema solare. Gli accurati calcoli orbitali dei due astronomi danno come risultato un solo e unico scenario: il corpo celeste è in rotta di collisione con il pianeta Terra e le sue dimensioni non danno scampo al genere umano, destinato all’estinzione! Fin qui sembrerebbe un film alla Roland Emmerich o alla Micheal Bay, per intenderci, non fosse che McKay decide di farlo a modo suo, osando nell’abbondanza ma attingendo ad armi già utilizzate (bene) nei suoi precedenti lavori, riadattandole: i riflettori della TV superficiale e autocompiacente (Anchorman) coi suoi colori sfavillanti e saturati; il sarcasmo cinico a incorniciare la crisi (La grande scommessa); la passerella istituzionale tra i corridoi informali della Casa Bianca (Vice – L’uomo nell’ombra). E a chi decide di affidare tutto ciò? A un cast stellare (per restare in ambito astronomico) che vede la già nominata coppia protagonista DiCaprio-Lawrence contornata da tanti altri collezionisti di premi e nomination: Meryl Streep, Cate Blanchett, Jonah Hill, Mark Rylance, Timothée Chalamet… e qui ci fermiamo.

Il film apocalittico subisce una metamorfosi e Micheal Bay vede nascere una sua versione in chiave satirica: in Don’t look up la politica snobba gli scienziati (non c’è tempo per le comete, ci sono prima le elezioni e i consensi da mantenere), nei salotti televisivi il gossip batte la fine del mondo e la crisi della love story di Ariana Grande scavalca in scaletta il “Moriremo tutti” urlato dalla disperata Dibiasky. E il pubblico? È questo l’elemento con cui McKay si allontana da Armageddon – Giudizio finale e raggiunge l’attualità: il dilemma lancinante della gente comune non è più “Come risolveranno il problema?”, bensì “Il problema… esiste?”. L’uomo preferisce rifugiarsi nel negazionismo e/o nel menefreghismo. Che si tratti di pandemia o di riscaldamento globale (tanto a cuore a DiCaprio, tra l’altro) la scienza diventa una opzione, non il salvagente nella tempesta. Almeno fino a quando la verità non si palesa davanti ai nostri occhi (o sopra le nostre teste, tra le stelle). McKay questo prova ad evidenziarlo, ma a volte si perde in un’ironia eccessiva inscenata in maniera volutamente scolastica, forse con l’intenzione più o meno nobile di arrivare al maggior numero di persone possibili, sfiorando l’approssimazione.

In certi momenti l’abbondanza menzionata prima diventa un troppo. Risulta complicato capire, al termine dei centoquaranta minuti di visione (troppi anch’essi?), la necessità di un cast così nutrito, se a risentirne è poi il minutaggio concesso ad ogni singolo (e bravissimo) interprete. In più, dovremmo riconoscerci nell’ansia del professor Mindy non solo per la bravura di DiCaprio, ma anche per il fatto che l’angoscia del suo personaggio è causata da noi, avulsi spettatori di un mondo che stiamo lasciando morire. L’immedesimazione in quell’ansia risulta difficile in alcuni passaggi, in quanto spesso frammentata da attimi di leggerezza gratuita, canzonette sopra le righe o battute anticipabili. Don’t look up è un buon film, da vedere con un occhio su Netflix e l’altro sul mondo oltre la finestra. Ma non si faccia l’errore di ricercarvi all’interno necessariamente il capolavoro dell’anno, perché la cometa, a quel punto, rischierebbe di avere un impatto devastante più sulla superficie terrestre del pianeta impresso nei fotogrammi che nell’animo del fruitore.

 

 

Alessandro Bonanni