Foglie al vento: gelido realismo ed empiti calorosi di Aki Kaurismäki

A trentaquattro anni di distanza da La fiammiferaia, che chiude il cerchio della rigorosa ed eccentrica trilogia dei perdenti cominciata con Ombre nel Paradiso e proseguita tramite Ariel, l’inossidabile regista finlandese Aki Kaurismäki torna a scandagliare sulla scorta del solido timbro stilistico le ubbie, frammiste all’ansia di riscatto, dell’immusonita working class residente a Helsinki.

Sebbene l’egemonia degli spunti sarcastici della nuova fatica, Foglie al vento, sugli ordinari segni d’ammicco dell’enfasi di maniera consoldi il cavallo di battaglia dell’autore avvezzo a cogliere l’altalena d’incanto e disincanto dei losers autoctoni, la cui peculiare impassibilità costituisce una forma di difesa dall’emarginazione sociale, gli echi favolistici, ad appannaggio già del previo L’altro volto della speranza, scalzano la fredda contemplazione del reale.

Non si tratta in ogni caso d’una scelta involutiva incline ad annacquare l’intransigenza degli esami comportamentistici congiunti al darwinismo antropologico. La correlazione tra habitat ed esseri umani resta infatti un valido tratto distintivo. Ad acquisire rilievo è invece l’ansia di riscatto emanata dalle toccanti canzoni, in contrasto con l’espressività da pesce lesso degli avventori dei locali coi nomi esotici, nonché dai folti richiami citazionistici al cinema di pensiero. Un tempo motivi d’immane frustrazione e di speculare contrasto rispetto alla crudezza oggettiva. Pungoli decisivi adesso per uscire dal grigiore delle ingiurie giornaliere. Imperanti sia nel supermercato dove Ansa contravviene ai cinici ordini di servizio, in merito ai beni alimentari destinati alla spazzatura, sia sul posto di lavoro del suscettibile Holappa. Schiavo dell’alcool ma rapito dalla magia del buio in sala insieme alla propria bella dinanzi alla visione della horror comedy I morti non muoiono di Jim Jarmusch.

L’arte di esibire la fabbrica dei sogni affissa sui muri – coi manifesti di Rocco e i suoi fratelli, Il bandito delle 11, Fat City sugli scudi – diviene quindi l’antidoto ideale contro lo spettro dell’alienazione. Mentre i mesti rintocchi provenienti dalla radio casalinga che trasmette le notizie sul tifone di sangue e fuoco in atto nel cuore dell’Ucraina proiettano l’assunto nell’imminente 2024, plasmando l’opera in base ai corsi e ricorsi storici, col solito riverbero della sfera pubblica su quella privata, l’effigie dei luoghi d’evasione dal cupio dissolvi resta piuttosto in superficie. Ad approfondire il confronto tra due caratteri “così lontani così vicini”, per dirla alla Wim Wenders, non provvede nemmeno la pur apprezzabile cornice di gag dispiegate in filigrana. Pure i consueti silenzi carichi di senso interrotti dalla compiuta ed eterogenea musica intradiegetica sanno di risaputo.

Spetta ai semitoni, percorsi da una solerte vena romantica, preferita nelle battute conclusive all’impostazione semicaricaturale delle ormai vetuste note malincomiche, il compito d’ingranare la marcia. Senza bisogno di attingere a pretestuose tecniche di straniamento. Bastano i lampi di sensibilità ed estro ravvisabili nell’amore per gli amici a quattro zampe, nella geografia emozionale che veicola i modi di reagire agli schiaffi del destino, in conformità con i mutamenti di rotta rappresentati dal cambio di stagione, e nell’omaggio all’epilogo dell’inobliabile Tempi moderni di Charles Chaplin. Foglie al vento, rendendogli onore, anziché pagare dazio all’accidia delle idee prese in prestito, trascende i prevedibili pizzichi d’humour nero, l’algido lavoro di sottrazione necessario ad aggirare i limiti del budget risicato, lo snobistico timore di cedere alla spettacolarizzazione dei sentimenti. L’abilissimo governo degli spazi deputati all’ordine naturale delle cose e l’impeccabile misura recitativa degli interpreti – in particolare Alma Pöysti con una performance da Oscar nel ruolo di Ansa – portano allo scoperto l’emblematico sottosuolo dei gesti, impreziosendo l’estetica minimalista grazie alla forza significante degli echi sempiterni. Che esortano anche il pubblico più scettico a credere alle favole.

 

 

Massimiliano Serriello