Rione Sanità. La certezza dei sogni: il rapporto tra cinema e territorio secondo Massimo Ferrari

Il rapporto tra cinema e territorio consente ai documentari di andare oltre l’arcinoto approccio didattico-divulgativo ed esorta i registi ad anteporre alla fredda contemplazione del reale l’opportuno calore umano insito nella scoperta dell’alterità. Ed è infatti un viaggio di scoperta quello che Massimo Ferrari, autore già del poetico docu-fiction Dove vanno le nuvole, dirige in Rione Sanità. La certezza dei sogni, disponibile il 18, 19 e 20 Gennaio 2021 su #iorestoinsala.

La voce fuori campo nell’incipit di padre Antonio Loffredo traina subito gli spettatori in un rapporto d’intima coalescenza. L’uomo di Dio, deciso a dimostrare al papà imprenditore di non essere un pusillanime come il don Abbondio di manzoniana memoria, è inquadrato di quinta. Mentre entra nella chiesa di Santa Maria della Sanità. Sulle note di una musica avvezza all’inane magniloquenza.

Tuttavia, a partire dall’immediato prosieguo, l’enfasi di circostanza cede il passo a timbri meno scontati e più evocativi. Conformemente alle parole estrapolate dall’intenso romanzo Nostalgia di Ermanno Rea. Il senso d’appartenenza permea così la costruzione narrativa. Contraddistinta dagli stilemi dell’opera a mosaico. La frammentazione del racconto paga talvolta dazio ad alcune modalità esplicative che sviliscono la forza significante della spontaneità di tratto dei personaggi testimoni della riqualificazione condotta dalla teoria alla prassi dall’appassionato parroco. Certi standard base, attinti ai monologhi teatrali e alle interviste-confessioni tv, stridono rispetto al successivo stream of consciousness. Simile, sotto determinati aspetti, all’alta densità lessicale dei protagonisti dell’intenso ed elegiaco biopic Pina di Wim Wenders. L’incongruenza di unire la grazia dell’immagine, l’esuberanza dell’aneddotica popolaresca e il gusto per il bozzetto con l’accuratezza psicologica dell’apologo, incline a promuovere l’etica ad antidoto contro i deleteri condizionamenti ambientali, è però sopperita dall’abile tessuto figurativo. Che mostrando il quartiere attraverso le variazioni di profondità garantite dalle composite ottiche, ora oblique ora lineari, ne rivela l’anima connessa alla fragranza di vita degli abitanti.

Scongiurato il pericolo di svilire l’intelligente cambio di paradigma con le cadute nel dolciastro, riuscendo invece ad amalgamare l’immediatezza espressiva della colloquialità col fascino dell’oratoria, i valori identitari della location, legata alle origini del Principe della risata Totò e all’ingegno creativo di Eduardo De Filippo nella celebre commedia in tre atti Il sindaco del rione Sanità, emergono appieno. L’effigie delle strade, dei cortili, del ponte Maddalena Cerasuolo, degli emblematici vicoli, braccati dalla camorra ma difesi con le unghie e con i denti dalla gente allergica all’incuria, trascende le banalità scintillanti della propaganda. A toccare un punto nevralgico, per rendere onore al progetto P.I.T.E.R. (Percorsi di Inclusione Territoriale ed Empowerment nel Rione Sanità) e all’associazione “Un popolo in cammino per Genny vive” senza seguire la soporifera falsariga dei telegiornali privi d’estro, provvedono gli ottimi raccordi di montaggio. In grado di creare curiosità in merito allo sviluppo delle mini-storie congiunte al taglio dello spazio in questione. Impreziosito dalla valenza cromatica dell’avveduta fotografia che rischiara le diverse zone d’ombra.

Il ricorso agli spediti carrelli in avanti all’interno della Napoli sotterranea, nelle catacombe di San Gennaro, lungo i corridoi dove lo slancio della Storia con la “s” maiuscola si va ad appaiare all’intrinseco predominio delle luci sulle ombre, alza decisamente l’asticella. Le prove di recitazione dei giovani, intenti ad addestrare l’altalena degli stati d’animo in un training irrobustito dall’esperienza maturata nell’università della strada, la guida solerte e al contempo affabile di padre Antonio Loffredo, artefice dell’attesa palingenesi grazie alla cocciutaggine di preferire la tonaca al doppiopetto, l’accenno dell’Inno alla Gioia, con l’orchestra anch’essa votata alla costruzione palmo a palmo dei momenti sublimi di trasporto lirico, anziché all’algida puntigliosità esecutiva, rientrano nei guizzi delle variazioni sul tema della nobile rivoluzione pacifica. In nome della cultura. Il dietro le quinte, quantunque provvisto di un incisivo margine d’enigma, stenta a garantire al mix d’interni ed esterni l’ampia gamma di sfumature delle erudite parabole antiretoriche che partono dal reale per arrivare al soprannaturale. Però, pur restando coi piedi per terra, la chiusura del cerchio di Rione Sanità. La certezza dei sogni, con l’ode trascinante che spicca il volo, consente al palese tasso di emotività contenuto nei legittimi desideri di riscatto dell’intera popolazione d’invertire l’infausta rotta con la Fede. Ed ergo con l’egemonia dello spirito sulla materia.

 

 

Massimiliano Serriello