Milo di Pascal Franchot

Milo è un piccolo film del 1998 che col tempo è diventato per gli estimatori del genere un vero e proprio cult. Appartiene a quella categoria di pellicole che riescono a mettere inquietudine fin dalla prima scena, perfettamente rappresentate dagli horror Anni Ottanta, ma che hanno ancora qualche guizzo significativo anche nei Novanta. Regista di Milo è il pluripremiato Pascal Franchot, francese, ma diplomato in Cinema e laureato in Fotografia negli Stati Uniti. Dopo una lunga serie di spot pubblicitari e video musicali Franchot approda al cinema col suo primo lungometraggio, Milo, che ottiene un ottimo successo, tanto da portare il regista a diventare una vera e propria stella della televisione americana ed a dirigere con successo attori del calibro di John Malkovich. Con il supporto dell’inquietantissima musica di Kevin Manthei, martellante ed ipnotica come da Tubular Bells di Mike Oldfield in avanti, Milo sfrutta molto due figure tipiche del cinema dell’orrore: i bambini, da sempre portatori di ansia ed angoscia in una certa tipologia di film, ed il mad doctor, lo scienziato pazzo, i cui esperimenti folli portano sempre a tragiche conseguenze.

Cinque bambine seguono in bici un loro coetaneo, vestito di un impermeabile giallo, che non frequenta la loro scuola. Si tratta di Milo, bimbo inquietante e misterioso, figlio di un famoso medico, che conduce le bambine a casa sua e dopo aver mostrato loro tutta una serie di barattoli contenenti feti umani chiede a una di esse di sottoporsi ad un suo check-up. Impugnato quindi uno dei bisturi del padre, Milo uccide la bimba, provocando sgomento e sconforto nelle piccole superstiti. La scena si riapre poi molti anni dopo, quando le bimbe sono ormai donne, e si ritrovano tutte nel loro paese di origine per il matrimonio di una di loro, la quale però, purtroppo, ha un grave incidente d’auto il giorno prima, in cui rimane uccisa. Chiamata a prendere il suo posto nella scuola locale come insegnante Claire, che dopo il fattaccio di Milo aveva lasciato la città, comincia a rivedere ovunque il piccolo aguzzino dall’impermeabile giallo, che si dice sia morto annegato molti anni prima, e mentre tutti gli altri la prendono per pazza cominceranno ad accadere intorno a lei i fatti più strani e terrificanti possibili, fino ad arrivare ad una verità che è più oscura e malata di quanto si possa anche solo immaginare.

Milo fa paura. E lo faceva a maggior ragione negli Anni Novanta. Fa paura senza bisogno di grossi effetti speciali o di inutili jumpscares, ma semplicemente usando bene luci ed ombre, musiche, atmosfere e location, sfruttando all’osso i personaggi e creando un tesissimo gioco di chiaroscuri che va a toccare le corde più recondite di tutti noi. Dietro a un bambino dall’aspetto innocente, in sella alla sua bici e vestito di un semplice impermeabile giallo come quello che caratterizzava il Georgie dell’It kinghiano, si nascondono molti e lugubri segreti che vanno a ricercare la loro origine nella vocazione che spesso l’uomo ha avuto, nella letteratura gotica come, purtroppo, nella stessa storia, di sostituirsi a Dio. Milo è un vero e proprio esempio di come, da un tema piuttosto usuale, si possa, con vera maestria, creare una così ben congegnata suspense che tiene lo spettatore incollato e teso per tutta l’ora e mezzo di durata della pellicola.

Ovviamente non mancano gli omaggi e le citazioni ad atri cult del genere, primo fra tutti Venerdì 13, nel quale parrebbe che il piccolo Jason Voorhees torni, dopo essere affogato a Crystal Lake, per vendicarsi di tutti coloro che lo hanno fatto morire e non solo. Ma il riferimento che sembra forse più ovvio, sebbene non così scontato, è quello allo slasher americano del 1976 Alice, Sweet Alice, di Alfred Sole, diventato in italiano Comunione con Delitti, dove una bambina con una maschera inquietante ed un impermeabile giallo va in giro seminando morte e terrore tra coloro che ella reputa suoi nemici. La storia poi, col bambino in qualche modo “diverso” dagli altri, che concupisce ed invidia le belle ragazze che non potrà mai avere ed alle quali non potrà mai somigliare, coperto nelle sue nefandezze da un genitore che alla fine ne diventa complice, ricorda molto da vicino quella del capolavoro argentiano del 1985 Phenomena, ed anche la somiglianza della protagonista di Milo, Jennifer Jostyn, con Jennyfer Connelly, non credo sia stata completamente casuale. Se la Jostyn ci offre un’interpretazione piuttosto convincente, dando vita ad una giovane toccata profondamente nella mente e nel corpo da quello che le successe molti anni prima (Milo infatti riuscì a ferirla col bisturi prima che lei potesse scappare), gran merito della riuscita del film va anche ai due comprimari che la affiancano: Vincent Schiavelli, attore americano di origini siciliane, nei panni dell’ambiguo padre di Milo, il dottor Matthew Jeeder, noto per essere stato presenza fissa nei film di Miloš Forman, ed aver lavorato con registi del calibro di Robert Aldritch, Ron Howard, Tim Burton e Clive Barker; a ricoprire il ruolo del bidello Kelso, figura chiave dell’intricata vicenda, troviamo invece l’attore Antonio Fargas, noto per la sua partecipazione alla famosa serie tv Starsky&Hutch ma anche per esser stato diretto da nomi quali Robert Downey Sr., Louis Malle, Sam Raimi e Ken Russell: la sua figura ricorda un po’ quella di Dick Hallorann, capocuoco dell’Overlook Hotel di Shining, interpretato dall’attore e cantante Scatman Crothers, che proprio come Kelso metterà a repentaglio la sua vita pur di salvare chi gli sta a cuore. E poi ci sono i bambini: Asher Metchik, 11 anni, nel controverso ruolo di Milo, ed il suo coetaneo, Jordan Warkol, in quello di Evan. Entrambi sapranno lasciare il segno in questo piccolo cult entrato di diritto nella storia del cinema dell’orrore.

Eppure, come spesso accade per i film divenuti col tempo cult, Milo non fu subito un grande successo nelle sale, forse per i temi di fondo che permeavano la pellicola, piuttosto toccanti e scabrosi, come l’aborto e l’inserimento problematico del diverso nella società, che per altro ricordano pellicole iconiche come Baby Killer di Larry Cohen del 1974 e Basket Case di Frank Henenlotter del 1982. Certo, Milo non è un film che si distingua per regia o fotografia particolari, ma sicuramente tutto l’insieme è ben congegnato ed arriva dritto dove deve arrivare, al subconscio ed alle paure più recondite dello spettatore. Non ha nulla di particolarmente terrorizzante, ma la grande casa isolata del medico, le atmosfere sonnacchiose della provincia americana dove i bimbi giocano da soli in strada, il misterioso bambino il cui volto rimane sempre nascosto dietro l’impermeabile giallo e la cui voce biascicata mette letteralmente i brividi, sono tutti ingredienti che portano chi guarda ad immedesimarsi nella storia, ed a lasciarsi coinvolgere dal buon ritmo che la contraddistingue e che diviene addirittura incalzante nell’ultima parte del film.

Insomma, nessuno griderà al capolavoro guardando Milo, ma valutandolo per il film low budget che è, ed inserendolo nel contesto in cui ha visto la luce, senza andare ad analizzare pedissequamente il lato tecnico, questa piccola pellicola ha ancora oggi il suo fascino, e si è conquistata giustamente il suo posticino nella storia dell’Horror Anni Novanta. Le carte nei raggi della bici, col loro rumore inquietante che risuona in questo ambiente oscuro e tetro, così come lo stesso campanellino, hanno la capacità di rendere spaventosi suoni e rumori d’altro canto molto comuni. In Italia Milo è stato passato più volte durante la mitica trasmissione Notte Horror (per la prima volta, in prima tv, nel 1999), che ha incantato le notti di noi ragazzi degli anni Novanta che l’aspettavamo a gloria, e quindi, anche solo per l’affetto che mi suscita, non posso che consigliarne a tutti la visione.

https://www.imdb.com/title/tt0167284/

Ilaria Monfardini