Sir – Cenerentola a Mumbai: tabù e prospettive

La storia del cinema è piena zeppa di racconti in fotogrammi di amori impossibili tra due amanti ostacolati dal destino, dagli amici, dai parenti o dalla società.

Neanche troppo lontani echi shakespeariani rendono ormai risaputo e, anzi, abusato il tema; ma, nonostante questo, Sir – Cenerentola a Mumbai offre qualche spunto di riflessione che non ricade nel solito déjà vu.

Ben lontana dai cliché del cinema hollywoodiano, la regista indiana Rohena Gera spinge il pedale sui tabù sociali dell’India, innestando sulla storia del ricco industriale Ashwin (Vivek Gomber) e della sua domestica Ratna (Tillotama Shome), giovane vedova, spunti biografici.

La condizione della donna in India è, forse, molto lontana da ogni concezione occidentale, ed è per questo che, da un lato, Sir – Cenerentola a Mumbai riesce a non ricadere in stucchevoli cliché e situazioni alla melassa di tante love story caratterizzate dall’inevitabile lieto fine.

Il rapporto tra i protagonisti non è sfaccettato, ma sa raccontare una realtà difficile e, a volte, drammatica in un contesto sociale troppo spesso edulcorato dai media.

È per questo che Sir – Cenerentola a Mumbai si muove su binari di una difficile, estranea alterità. Il cromatismo del cinema indiano, i suoi scenari speziati e i caratteri di straniante latitudine emotiva si traducono in una ruvida critica ad un sistema corrotto e malsano. Ed é interessante vedere come la Gera sappia capovolgere buona parte dei risaputi contorni del cinema sociale (le vecchie abitudini perse a favore di un perverso universo morale moderno), puntando il dito sulla necessità di stravolgere l’ordine costituito per rifondarne la struttura su norme più umane ed attuali.

Certo, Sir – Cenerentola a Mumbai non è propriamente il titolo adatto ad un’operazione di questo tipo, ma è ormai risaputo che quello che in Italia si perde nella traduzione lo si ritrova, a volte, nell’orizzonte morale del film.

 

 

GianLorenzo Franzì