Tatami – Una donna in lotta per la libertà: l’apologo sportivo di Guy Nattiv e Zar Amir Ebrahimi

La capacità di presa immediata, prerogativa solitamente del cinema commerciale gradito al pubblico dai gusti semplici, è senz’alcun dubbio una delle caratteristiche primarie dell’insolito apologo sportivo Tatami – Una donna in lotta per la libertà.

Diretto in tandem dall’alacre regista israeliano Guy Nattiv e dalla debuttante collega, nativa invece di Teheran, Zar Amir Ebrahimi, già applaudita come attrice nei panni dell’appassionata reporter Rahimi in Holy spider di Ali Abbasi.

Il sincretismo stilistico ed espressivo che ne deriva, oltre a dare un colpo al cerchio dei coefficienti spettacolari alla Rocky e uno alla botte della ricercatezza figurativa sulla falsariga di Martin Scorsese in Toro scatenato, riverbera appieno paure ancestrali, trae partito tanto dal genere giallo quanto dal thriller, per poi esporre un punto di vista assai compiuto sull’argomento trattato. Vale a dire la tirannia esercitata dalle autorità iraniane, sino alla presidenza, per impedire alla loro grintosa judoka Leila, allenata dalla coriacea ed empatica Maryam, di vincere la medaglia d’oro ai danni della campionessa del paese che ospita la competizione mondiale: lo stato d’Israele. All’ingenua affabulazione dei match iniziali, preceduti dalla fase di preparazione vissuta da Leila mentre scioglie le tensioni accumulate sulla scorta di un crescendo piuttosto risaputo, segue l’assoluta prevalenza dei dialoghi serrati. La transitoria egemonia della componente parlata sul dinamismo dell’azione richiama li per lì alla mente il teatro dell’assurdo congiungendo la sospensione temporale, dovuta al lancinante sentimento d’insicurezza innescato dal perentorio diktat, e il senso di disorientamento che avvolge gli animi in subbuglio. Senza però mai tirar fuori dai toni amari, esacerbati dall’istinto della paura per i propri familiari tenuti sotto scacco a Teheran, quei cortocircuiti ironici, ad appannaggio dell’arguto Juho Kuosmanen nel pamphlet sul mondo della boxe La vera storia di Olli Mäki, in grado d’invertire i tòpoi dell’enfasi di maniera.

Scongiurata comunque dalla virtù di rivelare le zone in ombra, lungo i corridoi, negli spogliatoi, nel percorso che conduce alla tipica pavimentazione d’origine giapponese, detta tatami, dove gli incontri scanditi dai princìpi dell’arte marziale raggiungono l’acme. All’insegna delle eterogenee tecniche. Dalla Tomoe-nage alla seoi-nage. Che scaraventano a terra le ostiche avversarie grazie alla rapidità dei movimenti rotatori e la virtù di buttare il cuore oltre l’ostacolo, costituito soprattutto dallo strangolamento a triangolo, degli atleti duri nella lotta ma leali nell’anima. L’uso del deep-focus, conforme alla maestria di scrivere con la luce per mezzo del bianco e nero che dà risalto tanto al colore del sangue quanto alla scala di simbolici grigi, sopperisce alla prevedibilità della perenne fibrillazione. L’atmosfera di progressivo pathos trae linfa sia dall’ottimo montaggio alternato, con le gare combattute allo spasimo avvicendate dalle intense vicende collaterali, sia dagli stacchi ottenuti dal grandangolo per rendere il bisogno di nitidezza in un un contesto dominato dall’interregno della canonica suspense. Sostituita al momento giusto dall’aura meditabonda. Che, scavando nel sottosuolo dei gesti nascosti, connessi alla platealitá delle reazioni mimiche nel corso degli eventi al cardiopalma, converte il fascino dell’enigma, concernente l’epilogo sospeso tra happy e unhappy end, in poesia. Che, notoriamente, razionalizza l’assurdo.

E conferisce quindi all’angusta architettura narrativa, dispiegata per lo più al chiuso secondo gli stilemi del cinema da camera, un arioso balzo in avanti. Per rinvenire nell’ambito dell’alienazione la forza significante della comunicazione. A dispetto dei selfie in cui serpeggia la minaccia ai danni dei legami di sangue e di suolo nonché dei disvalori spacciati per valori insieme agli eccessivi slow-motion. Che tradiscono l’ambizione un po’ smisurata di mettere, sulla falsariga del celebre brano di Celentano, una carezza in un pugno. Anche se l’interazione tra suoni diegetici ed extradiegetici, contrapposti agli sporadici ed eloquenti silenzi, scivola talora nel semplicismo, accentuando le crisi di respirazione causate dal dilemma morale, lo splendido equilibrio conclusivo tra percettività artistica ed emotività popolare chiude in bellezza. Cementata dalla destrezza recitativa delle due protagoniste. In particolare della sensibile ed eclettica Zar Amir Ebrahim nelle vesti della coach decisa a sconfiggere la paura per esortare Leila alla vittoria. Tatami – Una donna in lotta per la libertà aggira così l’impasse di rispolverare logori luoghi comuni e taglia il traguardo della vitalità creativa ricavando spunti determinanti da due modi opposti di concepire la fabbrica dei sogni.

 

 

Massimiliano Serriello