Un sogno per papà: un dramedy per il francese Julien Rappeneau

La ricerca dell’elezione stilistica spinge spesso i cineasti più ambiziosi, privi del senso del ridicolo, ad anteporre, nella costruzione dell’inquadratura e nel valore drammatico ed evocativo dei movimenti di macchina connessi agli attimi clou della trama, l’impasse delle elucubrazioni teoriche all’onesta capacità di presa immediata.

Spiegare le cose difficili in maniera semplice, invece, rientra negli obiettivi prefissi dal regista francese Julien Rappeneau, figlio dell’erudito Jean-Paul, autore dell’eccellente versione per il grande schermo di Cyrano de Bergerac con Gérard Depardieu nelle vesti dello spadaccino impavido ma sensibile, nonché del copione dell’arguto Zazie nel metrò di Louis Malle.

Buon sangue non mente, dunque, perché il dramedy Un sogno per papà risulta, tanto per cominciare, uno dei pochi film riusciti tra quelli incentrati sul gioco del calcio. Lo testimoniano le riprese degli stop al volo, del controllo della sfera con l’esterno del piede e dell’opportuna metonimia, ovvero l’emblematica parte per il tutto, in grado di cogliere sin nei minimi particolari il climax d’ogni match sull’erba.

In secondo luogo, dopo l’ingannevole incipit, che lascia presagire agli occhi del pubblico superficiale l’inane predominio degli accenti folcloristici rispetto ai semitoni rivelatori, l’intenso proseguimento palesa il degno sforzo profuso per trascendere i segni di ammicco in bilico tra realtà e favola. La crudezza oggettiva della vicenda, con il beone Laurent considerato persona poco gradita dal presidente della squadra dei piccoli a causa degli scatti d’ira a bordo campo per le entrate a gamba tesa ai danni del talentuoso figlioletto Théo, sprizza vitalità, in virtù di un quadro d’intima speranza pedinato passo per passo, ed esibisce stilemi insperati.

La costante impertinenza, unita alla rabbia belluina dietro cui si celano tanto lo scoramento per non essere riuscito a trovare un posto al sole quanto la bonomia degli autentici slanci affettivi, scorge nell’antiretorica il giusto corrispettivo. La chiave malincomica, impreziosita dalla fragranza della sincerità riposta nell’assoluta riuscita delle buffe gaffe, diviene un sano antidoto alle superflue pieghe patetiche.

Quando Théo, ribattezzato formica per via dell’esile costituzione fisica dall’amica del cuore con la quale condivide il punto d’evasione dagli assilli giornalieri in un vertiginoso trampolino sperduto in mezzo all’ordine naturale, finge di aver ricevuto la chiamata dell’Arsenal Football Club allo scopo di spronare l’immusonito padre a invertire l’infausta rotta, la cura dei dettagli assume comunque una funzione importante.

Il rapporto di Laurent con l’energica assistente sociale Sarah, benché scopiazzi gli apologhi sul precariato di Ken Loach, offre intermezzi che mischiano in maniera specifica il fiele della satira di costume e la dolcezza della mutua solidarietà. L’idea di creare pure una certa suspense, sull’esempio dei romanzi d’appendice nonché dell’atteso bacio culminante fra Tom Cruise e Demi Moore in Codice d’onore, è assai incisiva.

All’indugio nel lieto fine, per unire al dono del ritmo il trionfo dei buoni sentimenti, alla stessa stregua del cult per famiglie Rocky, si vanno ad aggiungere trovate sapide ed eterogenee. Quella dell’amico hikikomori, afflitto cioè dal morbo dell’isolamento che però nel chiuso della sua stanza riesce in veste di hacker a fabbricare sulla rete Internet le false prove della convocazione presso il prestigioso club inglese, sembra dapprincipio dare solo nerbo ad alcune gag di alleggerimento.

Invece, col succedersi degli eventi, grazie altresì alla compiutezza del solerte montaggio alternato, la vittoria sul ritiro dalla vita sociale produce significativi effetti empatici. Gli stessi ottenuti dai diversi unhappy end che precedono il fiabesco sviluppo dell’ultima partita della stagione.

Tuttavia la minuzia descrittiva del tran tran giornaliero, con l’ingresso dell’ubriacone redento nella fabbrica che inscatola le mele, scartando quelle ritenute a lume di naso meno perfette, raggiunge l’imprevista vetta della verità poetica. L’amarezza, al contrario, dei fatali momenti di sbandamento, in seno altresì ai consorzi domestici, dove la mamma del campioncino e il nuovo partner stentano lì per lì a capire le ragioni delle continue bugie, acquista sul piano dell’approfondimento ciò che perde in sobrietà espressiva.

Il lavoro di sottrazione, viceversa, alla base già della previa commedia Rosalie Blum, tratta sempre da una graphic novel, consolida ancora la sindrome di Peter Pan insieme agli evidenti echi del capolavoro Stand by me – Ricordo di un’estate. Diretto da Rob Reiner, artefice, guarda caso, ugualmente di Codice d’onore. Ma, al di là dei richiami citazionistici, la densità umana delle figure di fianco, con l’allenatore impersonato dal bravo ed esperto André Dussollier e il suo vice fissato con i dolci fatti in casa sugli scudi, ripaga degli spunti attinti all’altrui estro.

Lætitia Dosch, forte della grazia spontanea, molto diversa dall’algida alterigia delle top model che imperano negli action-movie d’oltreoceano, illumina letteralmente la scena nel ruolo di Sarah con il valore dell’umorismo congiunto all’austera ed epidermica compostezza della preziosa dinamicità interiore.  François Damiens conferma le qualità d’interprete versatile, a tratti farsesco, talora mesto, ed espone con il personaggio di Laurent i patimenti di chi si sente abbrancato dal beffardo circo d’infelicità per poi tirar fuori, in zona Cesarini, l’orgoglio, estraneo, sia in prassi sia in spirito, ai vani furori.

È nondimeno la geografia emozionale, con l’effigie degli spazi negletti in grado d’incidere sui minimi avvenimenti e sul mutamento risolutivo, ad accrescere il diletto della visione di Un sogno per papà.

 

 

Massimiliano Serriello