Yuli – Danza e libertà: la storia del ballerino Carlos Acosta

La cifra stilistica dell’avveduta regista spagnola Icíar Bollaín, che in Ti do i miei occhi era riuscita a scandagliare le incrinature dei rapporti di coppia sulla scorta dell’acuto senso introspettivo, muta segno con Yuli – Danza e libertà, presentato in anteprima presso il Terni Pop Film Fest – Festival del cinema popolare.

L’inversione di tendenza potrebbe sembrare una piega involutiva, presa per combaciare all’emotività delle ingenue masse, allergiche all’aura austera del cinema d’autore, se, in filigrana, ai modelli già collaudati sul piano del racconto dai cult tanto cari al pubblico quanto alla critica, non si andasse ad aggiungere un’appropriata cura dei particolari.

Merito dell’attento sceneggiatore Paul Laverty, storico assistente di Ken Loach, aedo per antonomasia della working class anglosassone, che imprime alla rievocazione della vera storia del ballerino cubano Carlos Acosta l’imprinting di una schietta crudezza oggettiva associata alla capacità di ritmare le scene a suon di musica.

Anche se, talvolta, il connubio tra ammiccamenti commerciali, lapalissiani perfino per le platee allergiche ai dispendi di fosforo, e certe sottigliezze espressive, in grado di approfondire il piacere di esibirsi attraverso l’idioma del corpo, risulta un po’ pretestuoso, l’intrinseco processo d’identificazione col protagonista trascende i molteplici clichés.

La gabbia della famiglia, i faccia a faccia col padre desideroso di vedere il figlio riscattarsi dalla miseria, i vincoli di sangue e di suolo, le performance in armonia col territorio natìo, l’acre scoperta dell’alterità, col viaggio nel Nuovo Mondo, vanno a comporre un quadro narrativo di bell’effetto che paga, però, dazio all’impasse dell’infruttifero déjà-vu.

A riscattare l’inane scaltrezza di ricorrere ai plagi camuffati da omaggi (nei riguardi di Flashdance, Shine – per l’asprezza degli scontri in famiglia sul tema dell’ambizione – e Billy Elliot con il ragazzino timoroso di dar prova d’impalpabile virilità con l’adesione al ballo) ci pensa, in primo luogo, l’idea di far interpretare l’immusonito ma sensibile protagonista da adulto allo stesso Carlos Acosta.

Il relativo carattere d’autenticità, analogo, sotto certi aspetti, a quello posto in essere in Tatanka di Giuseppe Gagliardi reclutando Clemente Russo nel ruolo del pugile cresciuto a Marcinese, riesce così a compensare anche gli enfatici tagli di luce, connessi sia agli ardui bagliori della ribalta, sia all’ovvio ordine naturale delle cose, e altri momenti assai risaputi.

Infine, sul piano pure di un amorevole brio, che non sarebbe dispiaciuto affatto al nostro Giovannino Guareschi, la lagna dei richiami mélo, esacerbati dalle dinamiche figurative ivi congiunte, cede il passo in Yuli – Danza e libertà alla genuinità del linguaggio pane al pane e vino al vino che converte l’ampollosa retorica in gustosa antiretorica. Ed è un colpo di coda destinato, anziché a rimpinguare la cerchia dei falsi intenditori, ad accrescere l’affluenza in sala degli spettatori dal sincero trasporto.

 

 

Massimiliano Serriello