Aladdin: sembra Bollywood ma non è

Va fatta una premessa. Chi scrive, e non è il solo, non vede di buon occhio quel nuovo sottogenere post post moderno che vede di buon occhio le riscritture, anzi, i rifacimenti (perché la riscrittura implica uno sforzo di inventiva di cui, invece, in questi non vi è traccia) di alcuni cartoon storici.

E non per un presunto quanto anacronistico reato di lesa maestà -tutto si può e si deve rifare, tutto è perfettibile- quanto perché il film d’animazione, quello fatto bene, nasce con il preciso intento di assegnare al tratto del disegno una riscrittura (qua si che è il caso di usare il termine) della realtà, declinando la narrazione verso un gusto ora grottesco, ora fiabesco, ora giocoso, ora buio. Insomma, sostituire attori in carne e ossa -e pixel- leva molta della magia e dell’arte del disegno, se non tutta: e resta solo la storia.

Che per quanto può esser buona, torna sempre ad alcuni archetipi fondamentali che gira e rigira sono gli stessi. Se parliamo poi della Disney, potremmo anche dire senza timore di smentita che tutti i suoi film girano intorno agli stessi argomenti, orientati e diversificati però, proprio, dal tratto e, quindi, dal mood proprio della creazione. E arriviamo ad Aladdin, che fin dalle foto promozionali uscite parecchio tempo prima del trailer ha fatto fare a più di uno smorfie che andavano dal disgusto alla disapprovazione. Che probabilmente, però, dimenticavano la firma alla regia, quella di Guy Ritchie. Lo stesso Ritchie che, volenti o nolenti i critici, è un autore e, come autore, ha una sua impronta, un suo gusto, una sua personalità dietro la macchina da presa.

Aladdin, come prima di lui La bella E la bestia, Il libro della giungla, La carica dei 101 (e presto Il Re Leone, ma quella è o sarà un’altra storia), fonda la sua stessa ragion d’essere con il confronto – non solo inevitabile ma forse ontologico – con l’originale, una continua riproposizione di scene ultra famose che sono ormai entrate nell’immaginario e che devono essere ricostruite forzando la realtà e distorcendola tramite la forza della fantasia (o più esattamente della computer grafica).

Va detto però che, confrontando lo stesso film con i suoi cugini, l’opera di Ritchie vince e convince un pelino di più, perché emerge l’autore, certo, e lo fa con un triplo salto mortale di senso e di meta senso, invitando lo spettatore, consapevole del cortocircuito, ad infrangere la quarta parete nel gioco di sottolineature e rimembranze, divertendosi, anzi, con le invenzioni che prendono in contropiede e con un Will Smith che gigioneggia nella triangolazione dei tre protagonisti perfettamente delineati.

E poi, le coreografie, i costumi, le danze, le canzoni: tutto molto speziato, come in un musical di Bollywood, tutto allineato con un gusto medio (per fortuna non mediocre) senza lode e senza infamia. È poco, certo, ma è quanto basta a levare quel fiato mortifero da tutta l’operazione, innestandogli quel tanto di vitalità che basta a non far spegnere il film su se stesso e che, anzi, trova una leva non indifferente nel soddisfacente lavoro di scrittura compiuto su Jasmine.

Come tutte le principesse Disney, anche lei femminista ante-post-pre-litteram, non viene stravolta ma su di lei si accentuano posizioni parecchio attuali. Ed entra in gioco qui il talento di Ritchie, che riprende i suoi ralenti, i suoi montaggi frenetici, le accelerazioni e le decelerazioni, iniettandole in una storia che fa della meraviglia visuale il suo principale punto di forza.

Insomma, contraddicendo -ed è un piacere- il nostro incipit, Aladdin non è quel disastro che tutti aspettavano e su cui tutti puntavano, anzi, il disastro lo smonta e lo rimonta, e resta un piacevole divertissement migliore della somma dei suoi difetti.

 

 

Gian Lorenzo Franzì