Captain Marvel: superuomini, superdonne, superbotte

Il Marvel Cinematic Universe si tinge di rosa portando sui grandi schermi una delle massime esponenti femminili del regno dei supereroi, colei che per nome porta proprio la dicitura del noto marchio dei fumetti che ha visto il recentemente scomparso Stan Lee tra i suoi geni creativi.

Creato da quest’ultimo nel 1967, dove, però, era un uomo a disporre dei poteri speciali, Captain Marvel in versione cinema vive con le fattezze di Carol Danvers, protagonista dell’ultima versione delle strisce, affidata alla cura recitativa dell’attrice premio Oscar (per Room) Brie Larson, ultima arrivata del gruppo Avengers e prossima arruolata per le battaglie dell’imminente Endgame.

Per la regia del duo Anna Boden e Ryan Fleck, i quali si sono fatti le ossa dirigendo piccoli film come 5 giorni fuori e scrivendo Half Nelson con Ryan Gosling, questo ultimo kolossal della Marvel raduna nel cast gli ormai rodati in campo Samuel L. Jackson e Clark Gregg nei rispettivi panni degli agenti S.H.I.E.L.D. Nick Fury e Coulson, più la partecipazione di Ben Mendelsohn, Annette Bening e Jude Law, che si rendono partecipi dell’ennesima festa di luci che il regno dei cinecomic ha da proporci.

Ufficiale alieno della milizia imperiale dei Kree, Vers (Larson) si getta in una missione complicata insieme al suo battaglione, guidato dal valoroso Yon-Rogg (Law), e ad essere combattuti sono i micidiali nemici della pace Skrulls, capitanati dal pericoloso Talos (Mendelsohn).

Qualcosa, però, non va per il verso giusto e Vers, in fuga dopo una lunga battaglia, finisce catapultata sul pianeta Terra degli anni Novanta, cercando di portare a termine la missione stabilita. E qui trova l’aiuto dell’agente governativo Nick Fury (Jackson), il quale segue la misteriosa ragazza nelle più pericolose delle azioni, alla ricerca di un oggetto importante e fatale per l’armonia dell’intero universo, indicato dai ricordi di una misteriosa donna (Bening).

Non prima eroina dei fumetti portata al cinema, se pensiamo a Supergirl – La ragazza d’acciaio, del 1984, Captain Marvel conferisce alla linea produttiva dell’attuale casa di produzione gestita da Kevin Feige un tocco al femminile, concedendo così il giusto spazio anche al gentil sesso, dopo il tocco afro esibito nel precedente (e sopravvalutato) Black Panther.

il duo di registi uomo/donna Fleck e Boden si adegua alla visionarietà di tutto ciò che finora è stato esibito a riguardo, dirigendo questa semplice trama fatta di buoni e cattivi senza alcun risvolto particolare verso uno spettacolone ben calibrato, ricco di momenti salienti e tanto divertimento.

Questo Captain Marvel non è nulla di epocale, un lungometraggio dai costi alti che ben svolge il proprio dovere, senza esibire grandi doti artistiche o aggiungere chissà cosa alla psicologia dei suoi personaggi.

Gli intrighi sono più che basilari e alcuni colpi di scena sono anche abbastanza prevedibili, seppur non nocivi alla resa finale.

Ci si diverte a rivivere gli anni Novanta e a ridere di quelli che erano i primi passi verso le tecnologie attuali (inevitabile la strizzatina d’occhio alle connessioni internet e ai caricamenti su PC dell’epoca); tutto condito da un contesto quasi da buddy movie, considerando che buona parte del film è sorretta dallo spalleggiarsi tra un’adeguata Larson e un Jackson ringiovanito dalla CGI.

Quindi, i fan dei fumetti hanno il loro ennesimo blockbuster (e non è un caso che Vers, quando arriva sulla Terra, cada proprio all’interno di uno dei negozi della nota catena di videonoleggi), commuovendosi anche di fronte al ricordo del compianto Lee, qui immancabile con una delle sue spassose apparizioni a sorpresa (Kevin Smith docet).

Certo, magari ci si aspettava un qualcosa di più incisivo e profondo, visto che parliamo della prima eroina Marvel ad avere tutto questo spazio (che non ne voglia la Vedova Nera di Scarlett Johansson), ma, alla fine, ciò che questo film ci propone può bastare, anche perché poteva venir fuori di peggio se i registi si fossero lasciati prendere eccessivamente dalle ambizioni artistiche (vedere il cattivo esempio del già citato Black Panther).

 

 

Mirko Lomuscio