The Lighthouse di Robert Eggers

Non è facile parlare di un film come The Lighthouse di Robert Eggers senza essere pleonastici o ridondanti, e dire un sacco di ovvietà, ma ci proverò. L’opera, classe 2019, è il secondo step nella carriera del giovane regista americano, ed arriva dopo un gioiello come The Witch del 2015, che lo aveva subito catapultato nel Gotha delle nuove promesse dell’horror d’autore internazionale. In entrambi i film Eggers costruisce delle storie basate su solide atmosfere, che trasportano in mondi “altri”, creando un clima quasi fatato, irreale, disturbante, e lasciando aperte varie strade per giungere a metabolizzare la conclusione della vicenda. Se The Witch aveva come protagonista una giovanissima esordiente, per la quale il film ha rappresentato un vero e proprio trampolino di lancio in quella che si prospetta come una lunga e fruttuosa carriera, Anya Taylor-Joy, in The Lighthouse Eggers si avvale invece di due nomi decisamente già noti nel panorama cinematografico internazionale: il grandissimo Willem Dafoe, istrionico e carismatico, capace di interpretare qualsiasi genere di parte passando da Gesù Cristo a Max Schreck/Nosferatu, e il giovane Robert Pattinson, che ha dovuto lavorare sodo per scrollarsi di dosso il ruolo che lo ha portato alla notorietà, quello del vampiro buono Edward Cullen della fortunata saga di Twilight, ma che mi pare vi sia abbondantemente riuscito, lavorando per registri del calibro di David Cronenberg, Werner Herzog, Christopher Nolan, e ottenendo l’ambito ruolo di Batman nell’ultimo film dedicato all’Uomo Pipistrello, regia di Matt Reeves. The Lighthouse si basa principalmente sulle indubbie doti recitative dei due attori e sull’elegante fotografia in bianco e nero di Jarin Blaschke, che, come Eggers, aveva iniziato la sua carriera nel cinema proprio in The Witch, e che quindi ripropone qui lo stesso modello collaudato e perfettamente riuscito. Ovviamente anche la regia di Eggers è un altro degli elementi vincenti di questa pellicola al sapore di salsedine, che ci trasporterà su uno scoglio in mezzo al mare, all’interno di un faro, a seguire passo passo le solitudini di due uomini tanto diversi ma così intimamente legati.

Siamo alla fine del XIX secolo. Il giovane Ephraim Winslow si reca su un isolotto al largo delle coste del New England per lavorare un mese in un faro, come aiutante del burbero guardiano, l’anziano Thomas Wake. Tra i due non si stabilirà un buon rapporto, anche perché Wake pare si diverta a fare di tutto per vessare il povero Winslow, assegnandogli i lavori più umili e duri, e trattandolo nel peggiore dei modi. L’uomo sottolinea da subito al giovane come l’accesso alla luce del faro sia unicamente affar suo, e lui non debba nemmeno avvicinarsi alla saletta dei comandi. La solitudine, il silenzio, le atmosfere grigie, porteranno Ephraim ad estraniarsi sempre di più dalla realtà, cominciando a fare i sogni più assurdi, tra cui quello, ricorrente, che lo vede amoreggiare con una bella sirena sulla spiaggia. Sebbene sia stato più volte avvertito da Wake di non fare del male ai gabbiani, perché nelle leggende marinare uccidere questi uccelli sarebbe segno di malaugurio in quanto reincarnazione dei vecchi marinai morti, tuttavia il giovane, preso dallo sconforto, il giorno prima della sua partenza dall’isola ne uccide uno: la notte si scatena una tempesta fortissima che ovviamente non gli permetterà di andarsene, e cominciano a succedere intorno a lui le cose più strane, soprattutto legate a Thomas Wake ed alla sala dove si chiude gelosamente parlando con amore alla luce del faro. Cosa nasconde il vecchio custode? E cosa vogliono dire i sogni di Winslow? La verità non sarà univoca…

L’idea per questa storia di solitudine nasce a Eggers grazie al fratello Max, che con lui ne firma la sceneggiatura, e deriva da un racconto apocrifo di Edgar Allan Poe, che porta lo stesso titolo, e che rimase incompiuto a causa della prematura morte dello scrittore. Si tratta dell’ultimo racconto conosciuto scritto dall’autore americano prima della sua morte. La storia, concepita sotto forma di diario, parla di un uomo che si reca a lavorare su un’isola dove si trova un faro, con l’unica compagnia di un cane di nome Nettuno. Come si può notare le due vicende si differenziano fin dall’inizio, in quanto Eggers decide di collocare sull’isola due uomini e nessun animale al di fuori dei gabbiani. Il faro e le basse costruzioni che lo circondano sono state interamente costruite ex novo sul promontorio di Cape Forchu, in Nuova Scozia, nella contea di Yarmouth, dove già si trova un faro del 1962 in cemento. Per le riprese degli esterni, i produttori hanno quindi fatto costruire un faro di epoca affine a quella del film, dell’altezza di oltre 20 metri, in grado di resistere a raffiche di vento da 120 chilometri orari. Gli interni sono stati invece girati in un teatro di posa allestito dentro un hangar del locale aeroporto.

Se, quindi, la storia parte da Poe, tuttavia è più Lovecraft l’autore che viene omaggiato nelle scene del nostro film, per la sua attitudine a rappresentare abomini e mostri tentacolati molto spesso legati al mare ed agli abissi, oltre che per la sua naturale predisposizione a vedere del marcio dietro coloro che scelgono uno stile di vita troppo appartato e riservato, lontano dalla socialità comune alla razza umana. Lovecraft, ma non solo: anche la mitologia greca, quella del mito di Proteo, delle sirene, di Nettuno. Sì, perché spesso le divinità marine pesciformi immaginate dal solitario di Providence avevano non pochi punti in comune con certe divinità della mitologia greco/romana, e Proteo, figlio di Poseidone, spesso rappresentato con lunghi tentacoli al posto delle gambe, è sicuramente una di queste. Nella tradizione greca questa divinità era, guarda caso, associata all’isola egiziana di Faro, posta all’imboccatura del porto di Alessandria e sede del celebre faro annoverato tra le Sette Meraviglie del Mondo Antico. Essere mutaforma, instabile, variabile, è quindi quello interpretato da Defoe nel nostro film, decisamente, appunto, proteiforme. Accanto alla suddetta coppia di protagonisti troviamo, oltre a qualche comparsa all’inizio, soltanto due altri attori: la moldava Valeriia Karaman nei panni di un’avvenente quanto terrificante sirena che infesta gli incubi ed i sogni erotici di Winslow, e l’americano Logan Hawkes, il cui ruolo sarà risolutivo nel finale della pellicola. Sia il simbolo della luce del faro che quello del canto delle sirene, entrambi ammaliatori e portatori di morte, conducono il film di Eggers su un binario ben delineato, quello di un qualcosa di affascinante che diviene richiamo, e poi trappola senza alcuna possibilità di ritorno e di fuga: emblematica in tal senso è la scena della distruzione della scialuppa di salvataggio, che noi vediamo eseguita da Wake ma che lui stesso affermerà invece essere avvenuta per mano di Ephraim. Nessuno può uscire da lì, perché tutto è deciso fin dall’inizio, ed il gabbiano guercio che ogni tanto appare inquietante qua e là è portatore di risposte terribili e di oscuri presagi.

Con una fotografia che strizza l’occhio all’espressionismo tedesco, una regia curata nei minimi dettagli e fortemente strutturata, l’uso di alcune lenti e focali del cinema di un secolo fa e dialogato nella lingua di Coleridge, The Lighthouse ci trasporta in un tempo sospeso, il tempo di un sogno, in cui non si riesce mai a capire perfettamente se ciò che si sta guardando è ciò che realmente sta accadendo o sono solo immagini proiettate dalla mente offuscata dalla follia del protagonista. Il lugubre suono della sirena per le navi, che il faro effonde in giro insieme alla luce, contrasta in maniera lacerante col silenzio di cui sono pervase le splendide coste frastagliate e bagnate dai flutti, che tuttavia, anche nel silenzio, non trasmettono certo alcun senso di pace. Qui tutto è cupo, ermetico, disturbante. Non esiste pace in The Lighthouse, nel faro non ci si rilassa mai, nemmeno quando si è a tavola per consumare un pasto frugale: anche durante i pasti, durante il sonno, i misteri serpeggiano, e nessuna mente potrebbe non vacillare in una situazione così morbosa. Il film contiene moltissime citazioni colte, allegorie, simbolismi, che ognuno si divertirà a ricercare nel proprio background, ad interpretare ed a decifrare, e che alla fine costruiranno la percezione squisitamente personale del finale, disilluso e crudo come non mai.

Eggers dimostra ancora una volta di trovarsi perfettamente a suo agio nella costruzione delle dark stories, le fiabe nere, gotiche. The Witch era ambientato nelle campagne ed i boschi del New England nel 1600, qui si rimane nel New England ma ci si sposta in mezzo al mare: in entrambi i lavori le immense distese naturali in cui vengono immerse le solitudini dei protagonisti, che per un motivo o per l’altro hanno scelto di distaccarsi dalla vita di comunità, racchiudono al loro interno insidie ancestrali, a cui l’uomo (o la donna) fragile per il troppo isolamento deciderà, suo malgrado, di cedere. E così all’ariete nero simbolo del demonio in The Witch si sostituisce il gabbiano guercio incarnazione dell’anima di un morto in The Lighthouse, ed in entrambi i lavori la musica più usata è quella dei rumori e dei suoni che circondano la location dove si svolge l’azione. I sensi di colpa, i segreti più reconditi, le antiche maledizioni ancestrali, tutto viene a galla, tutto tende al completamento dell’opera finale del Fato, Grande Tessitore di tutte le nostre esistenze. Il faro, simbolo di luce e quindi speranza per i naviganti sorpresi dalle tempeste, diventa qui oggetto di contesa tra i due uomini, loro ossessione e, infine, loro definitiva condanna. La luce, gelosamente custodita dal vecchio guardiano, che pare, per un non si sa quale insondabile mistero, aver preso il posto della moglie nel suo cuore, da catartica e salvifica si fa devastante e schiacciante, non più portatrice di vita e speranza ma di follia e morte. The Lighthouse è un film meraviglioso, ma non per tutti: ne consiglio la visione a coloro che hanno voglia di avventurarsi lungo la china della paranoia e della follia, che vogliono intraprendere un viaggio oscuro e soffocante in un incubo in cui realtà ed illusione si intrecciano e si disgiungono continuamente, lasciando l’ignaro spettatore completamente spiazzato. Ma è così poetico e magico da incatenarci alla visione, da non farci ricercare la logica dove non c’è, da soggiogarci alla sua oscura malia, come un’opera teatrale per due soli attori, che solo chi ricerca un tipo di cinema decisamente autoriale potrà apprezzare fino in fondo.

 

https://www.imdb.com/title/tt7984734/

 

 

Ilaria Monfardini